Bonbon Robespierre. Il Terrore dal volto umano. Ce ne parla, in un saggio di piacevole lettura, Sergio Luzzatto (Einaudi). Il fratellino dell’Incorruttibile, che di nome faceva Augustin, era soprannominato così: «il nomignolo di Augustin evocava qualcosa di meno impegnativo, qualcosa di più leggero e di più dolce: sembrava alludere al caramello che avrebbe reso tanto migliore il gusto della Repubblica giacobina». C’erano modi diversi di interpretare il ruolo del terrorista, approcci molto lontani tra loro nel concepire la missione stessa del rivoluzionario. Bonbon ne ebbe uno tutto suo: «Al contrario del fratello, aveva guardato in faccia la Francia dell’anno II. Gli arresti arbitrari e i processi sommari, il rumore della ghigliottina e l’odore della morte, gli sconciati cadaveri e le fosse comuni: di che trasformare un rappresentante del popolo in un disumano "bevitore di sangue", o di che fargli scoprire dentro di sé, all’opposto, un’anima da "indulgente"». A ciò contribuì non poco l’indole di Bonbon e il suo particolarissimo carattere: vero bon vivant, Augustin, fu «incline alla dissipazione piuttosto che all’applicazione, ai piaceri piuttosto che ai doveri». Forse anche questa dimensione rivoluzionaria sì, ma meno totalizzante, lo condusse a moderare toni e azioni, a capire prima di altri che «se si voleva salvare la Rivoluzione, bisognava arrestare prima possibile la macchina impazzita del Terrore. Aprire le porte delle prigioni. Contenere gli energumeni col berretto frigio. Fermare la mano del boia». Così non fu: il tempo passò velocemente, "a rotta di collo", in una corsa inarrestabile che superò la stessa «fretta» di Bonbon: «Fretta, sì. Non di spargere il sangue, ma di risparmiarlo». Di fronte alla fine, Augustin scelse di morire insieme al fratello, condannato dalla Convenzione. Era arrivato Termidoro, per i due fratelli, ghigliottinati insieme, e per la Rivoluzione che nessuno poté salvare.

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