Marrakech (low cost) Express: la piazza che vive e il mondo alla rovescia

Toto Cutugno al bar dell’aeroporto Marrakech Menara canta, per amor di paradosso, Sono un italiano. Lasciatemi cantare allora le gesta qualsiasi – praticamente le non-gesta – di una compagnia di amici che si sono trovati a Marrakech, dove ognuno di loro “erano anni” che avrebbe voluto andare. Sul Grand Balcon de la Grande Place, tra i venditori dei suk, sulla terrazza decisamente aristodem del Café Arabe, in un hammam o nelle belle stanze di un riad, si consuma la più classica delle vacanze. E fin qui, si dirà, poco importa. Poi, però, ci sono i racconti. Della piazza più viva del mondo, quella Jamaa el-Fna la cui «cultura orale» è stata considerata patrimonio dell’umanità. E si capisce presto il motivo. Perché è il racconto la dimensione in cui si vive mangiando una brochette o sorseggiando una spremuta d’arancia a 30 cent, assaggiando un te alla menta o ascoltando il flauto degli incantatori, che – com’è risaputo – non incantano i serpenti, ma tutti quelli che stanno intorno a loro. E tutto questo, sia detto chiaramente, al di là del folklore, che pure costituisce un tratto essenziale della questione: appena arrivato, nella calca, ho schiacciato il ‘piede’ ad una scimmia, per dire. Allora c’è la storia della famiglia rumeno-marocchina e però italiana raccontata da Roberto, quella che Mattia riporta con un po’ di nostalgia, la coppia di italiani alle prese con le avventure di Avventure nel mondo, la giovane donna marocchina che vive a Berna e quella che vive a Parigi, i ragazzi che hanno trascorso un periodo della loro vita in Italia in cerca di fortuna e che ti raccontano una ‘porzione’ del nostro Paese mentre ti accompagnano per le viuzze della medina o cercano di rifilarti qualcosa di cui sicuramente non avrai bisogno. E ci sono le fogge delle persone venute da ogni confine, in una specie di crogiolo che assomiglia tanto a un centro gravitazionale. Tutti, a Marrakech, ti chiedono se stai andando alla Grande Place. Lì succede tutto. E per chi ha la cultura delle piazze come me, come qualsiasi italiano, sa che è nella piazza che si crea anche la comunità e che Clifford Geertz, quando parla di bazaar, parla proprio di questo. E, quindi, è nel mondo alla rovescia di un’Italia raccontata da chi la vive venendo “da fuori”, di un percorso contrario ai flussi delle migrazioni, che forse si trova una parte di quel senso che, stando qui, si era perduto. Dal Raval di Barcelona (un cartello, vicino al Macba, parla di ravalejar, un neologismo che ha dato il nome anche ad un bel documentario) al Lavapiés di Madrid (un barrio abitato per il 50% da immigrati, con la maggiore quantità di associazioni e di movimiento vecinal della città), e in attesa di arrivare a Kreuzberg, nel cuore di Berlino, visitando i luoghi dell’immigrazione, non potevamo non attraversare la piazza di Marrakech, confondendoci tra i volti, gli sguardi e le parole delle persone che la popolano al calar della sera. Una piazza così va sempre tenuta in mente quando si parla di stranieri (molto), di sicurezza (troppo), di cultura (troppo poco). Altrimenti si continuerà a non capire qual è la piazza e quale la strada di una convivenza non solo possibile, ma necessaria, in un mondo così complesso e difficile, certamente, ma anche vivo e vitale, che bisogna avere la curiosità – e il rispetto – di conoscere meglio. E di attraversare, appunto, come se fosse una piazza, in cui ognuno di noi ha qualcosa da fare e il diritto di vivere, insieme agli altri.

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