Pensando, tra l’altro, alle ninfe, attraversavo nel pomeriggio una libreria e non potevo non imbattermi ne Il mito delle Sirene di Maurizio Bettini e Luigi Spina (Einaudi). Ho cercato di resistere alla tentazione, ma – non avendo una Circe a cui telefonare per sapere come evitare l'”incauto acquisto” – la curiosità mi ha vinto. Il libro, come lo scoglio delle sirene, è straordinario. Altro che. Le Sirene fanno parte di quel vasto insieme di «mostri e ibridi», tipo le arpie, le gorgoni, le erinni e le sfingi (ma anche, per le pari opportunità, i satiri e i sileni) «che agivano sia sopra che sotto la terra abitata dai mortali, da singoli o in gruppo». E fin qui ci siamo: come sappiamo già che il loro nome fa segno al legame, alla ‘corda’, nel senso del richiamo del loro canto e di quella fune con cui Ulisse si lega all’albero della nave per non rischiare di correre da loro (che faccia bene o male, sta tutto in quei concetti di debolezza della volontà e, d’altra parte, di vitale curiosità intorno al quale è costruito il mito). Quello che scopriamo, leggendo, è sensazionale. Almeno in due direzioni. La prima viene dal racconto di Maurizio Bettini, che azzarda una soluzione sul contenuto del canto delle Sirene, in una sorta di confessione di Ulisse: «Quelle voci […] non erano più le voci delle Sirene, ma quelle di tutte le donne che avevo amato. Udivo la voce di Calipso, che risuonava roca nella grotta mentre mi stringeva fra le braccia, e non voleva più lasciarmi andare; la voce di Penelope che, a casa, cantava mentre mi preparava il letto, e io sentivo quanto desideravo tornare da lei; udivo perfino la voce di Nausicaa, che ancora non conoscevo, ma che mi aveva già innamorato, […]; e la voce di Circe che mi diceva di tenermi alla larga dallo scoglio delle Sirene». La conclusione è affascinante: «Perché nella loro voce si sente l’amore, quello del passato e quello del futuro, se ancora te ne resta un po’ da vivere, la gioia tutta insieme, come se il tempo non esistesse più e la morte fosse stata cancellata».
Sarebbe già da applausi, se non scoprissimo una seconda possibilità, ancora più sconvolgente. Chi conosce Kafka, già lo sa, e sa che, nella sua reinterpretazione del mito, l’eroe le orecchie se le era tappate eccome. Ma quello che Ulisse (e noi con lui) non sapevamo è il fatto che «le Sirene hanno un’arma ancor più terribile del canto, ed è il loro silenzio». Chiaro? «E’ forse pensabile, sebbene non sia mai successo, che qualcuno possa salvarsi dal loro canto, sicuramente non dal loro ammutolire». L’Ulisse di Kafka rischia così di “farsi un film”, diremmo noi oggi: «Non udì il loro silenzio, credette che cantassero e che lui soltanto fosse preservato dall’udirle; dapprima vide fuggevolmente il volgersi delle loro gole, il profondo respirare, gli occhi pieni di lacrime, la bocca socchiusa» e credette «che questo facesse parte delle melodie che risuonavano inascoltate attorno a lui» (bellissimo). Ma forse, dice Kafka, non andò così: e potremmo anche pensare che Ulisse avesse notato che le sirene tacessero (in modo, nota Spina, assordante e quasi offensivo) e che si fosse inventato un versione di comodo (a sua volta ingannatrice) da raccontare (e ‘raccontarsi’) una volta passato lo scoglio. L’unica cosa certa è che «debolezza e curiosità, fragilità e attesa del piacere possono mescolarsi e portare alla resa» e che, per resistere, serve un’astuzia che tra i mortali – proprio perché le sirene spezzano «ben altro che catene e alberi maestri», come vuole ancora Kafka – è rara. Anzi: volevo dire unica.

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