Così si intitola uno dei libri monumentali di Günter Grass (Ein weites Feld, in tedesco, e Feld vuol dire campo, un po’ come alla Cascinazza…). Giuseppe Pizzi mi ricorda una serie di episodi storici che rappresentano perfettamente la pretesa di autonomia – spesso frustrata – di Monza da Milano e dalle istituzioni ‘superiori’. Riporto il suo bel commento, da avvicinare alle vicende regionali delle ultime settimane:

La nostra città è, in proposito, un caso di scuola. La sua riluttanza a riconoscere ed accettare la supremazia di Milano è un fenomeno sociale diffuso che trova frequenti riscontri negli atti delle amministrazioni cittadine. Monza si sottrae ad ogni forma di subalternità verso Milano, secondo una tradizione che risale a quindici secoli fa, quando Agilulfo e Teodolinda consideravano sedi del regno sia Milano che Monza, e Teodolinda in uno storico incontro con il papa San Gregorio Magno sanciva la devozione del regno all’ortodossia di Roma, e decideva di erigere la basilica di San Giovanni, rivaleggiante per autorità e splendore con quella di Sant’Ambrogio. Milano e i milanesi ricambiano dedicando a Monza il minimo di attenzione possibile. Anche a livello politico-amministrativo, si ha l’impressione che i rapporti fra le due città siano puramente formali, del tipo “ci salutiamo ma non ci parliamo”. Del resto, l’arciduca Ferdinando aveva scelto Monza come sede della Villa anche per dimostrare che la maestà del potere imperiale in Italia non si fondava unicamente sulla grandezza di Milano. E dopo l’unità d’Italia, la Villa di Monza sarebbe diventata l’alternativa estiva del Quirinale, consegnando ai monzesi ulteriori stimoli per identificarsi con un potere più grande di quello di Milano. Insomma, Roma o Vienna come antidoto a Milano.
Ai tempi della controriforma, quando i contrasti, di qualunque natura fossero, si manifestavano sotto forma di controversia religiosa (però la recente guerra in Iraq, per molti aspetti, sembra ripetere lo schema), Monza proteggeva la sua identità storica costringendo l’arcivescovo Carlo Borromeo a rinunciare al suo proposito di imporre il rito ambrosiano in tutta la diocesi. Mentre Monza difendeva le tradizioni di rito romano per non cedere politicamente a Milano, a sua volta San Carlo Borromeo mirava in realtà ad affermare l’autonomia ambrosiana dalla volontà egemone di Roma. Allora il popolo di Monza reagì con forza. San Giovanni non volle cedere a Sant’Ambrogio. Si tramanda che gli emissari del Borromeo, arrivati nel Duomo monzese per notificare i provvedimenti dell’arcivescovo, vennero accolti prima con l’ostentazione degli antichi libri che documentavano l’autenticità storica e l’ortodossia canonica del loro rito e subito dopo con una vigorosa bastonatura che li convinse sul merito e li allontanò precipitosamente dal tempio.

Il senso è chiaro: "abbiamo libri più antichi", una nostra dignità e una nostra storia. Formigoni e i presunti federalisti pretendono di imporci una verità che non fa altro che del male alla città. La terza della Lombardia. Che vuole rimanere bella e poter decidere da sé. Almeno quello che le compete.

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