Introdurre ora una discussione sulla riforma della legge elettorale, senza esplicitare una posizione chiara nei confronti del referendum costituzionale (per sua natura più importante e precedente a qualsiasi discussione sul sistema elettorale, come la stessa Costituzione invita a pensare), significa fare un favore al premier e al suo entourage.

Colpisce che non se ne rendano conto Bersani e i suoi, o forse se ne rendono conto benissimo e, dovendo coprire un certo imbarazzo sulla qualità delle 'riforme' da loro votate, preferiscono dialettizzare e aprire il dibattito su un'altra questione, certamente collegata al referendum, ma che consente loro una certa qual deviazione dalla domanda: sì o no?

Lo ha spiegato ieri con durezza D'Alema, sempre più isolato nel Pd nonostante il recente ritorno di visibilità: se si vuole cambiare la legge elettorale, prima (in tutti i sensi) bisogna votare no al referendum costituzionale. Altri giri di parole, proposte e riproposte che non hanno avuto alcun ascolto finora, né sono state oggetto di vera battaglia politica, non servono a nulla. Anzi, sono letteralmente controproducenti.

Aprire una finestra di discussione sulla legge elettorale, ammorbidire il dibattito perché non sia un giudizio universale (dopo avere impostato tutto come un plebiscito, un armageddon, una resa dei conti, un «o con me o contro di me») è proprio interesse di chi difende l'attuale schema politico, come dimostrano le recenti prese di posizione di Napolitano e di Violante, autore di una buona parte dell'attuale schema di riforme.

Trasformare il dibattito costituzionale che è stato il governo a voler impostare così – con un unico quesito che dipende da una legge grande e grossa, quando si poteva lavorare su una serie di leggi separate e più precise (Letta e Franceschini, per dire, nella fase precedente, lo avevano fatto – vuol dire riportare al dibattito interno tra correnti e correntine una questione che riguarda le istituzioni e la Repubblica. Significa – se mi è consentito il gioco di parole – prendere posizionamento e non posizione, per l'ennesima volta.

Vi sono ragioni costituzionali, ma anche ragioni banalmente politiche: perché se poi il premier dovesse vincere il referendum che ha voluto autobiografico, chissà cosa potrebbe fare un'esigua minoranza del suo partito per cambiare lo schema di gioco. Praticamente nulla. Come sempre, come è puntualmente accaduto in questi tre anni e passa di legislatura, basta saperlo. E, sapendolo, agire di conseguenza.

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