“Not in my name”, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.

Igiaba Scego, qui.

Ciascuno di noi si prenda un nodo, il proprio nodo, e cerchi di sbrogliarlo, dipanando i fili politici ed economici in una nuova composizione più ordinata e coerente, denunciando chi imbroglia, nel senso letterale e figurato. Perché di imbroglioni, in questa storia, ce n’è fin troppi.

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