Il Presidente della Repubblica si oppone chiaramente all’ipotesi di elezioni anticipate, fino al punto da ipotizzare, se vi fossero spinte contrarie, le sue dimissioni. Molti oggi ritengono la posizione eccessiva. E indubbiamente è forte: dopo le «dimissioni» del Papa, quelle del Presidente della Repubblica sono altrettanto sconvolgenti, soprattutto se condizionate alla situazione politica.

Un inedito sorprendente per un ruolo di garanzia, che dovrebbe rappresentare tutti, non solo chi aderisce al patto e interpreta in un certo modo la situazione politica sopra richiamata. Una posizione però che non stupisce troppo: il Presidente, al momento del giuramento, il 22 aprile scorso, disse che aveva legato il suo nuovo mandato alla necessità di un Governo stabile per affrontare le emergenze della crisi economica, la riforma elettorale (la cui mancanza nella scorsa legislatura era stata definita “imperdonabile”) e quella costituzionale.

Non ero tra quelli che applaudivano spellandosi le mani, allora, ma ero tra i pochissimi che non lo facevano. E mi sono seduto volentieri dalla parte del torto (quel giorno, arrivai leggermente in ritardo, e rimasi in piedi, ad uno degli estremi dell’emiciclo).

Questa era stata la linea scelta dalle forze politiche che il Presidente avevano eletto e che avevano, infatti, poi costituito il Governo (Pd-Pdl-Sc), la cui durata è stata legata, da subito, alle riforme costituzionali ed elettorali, che, richiedendo tempo, potevano costituire l’architrave per lunghe (o lunghissime) larghe intese. Diciotto mesi, si diceva allora, per poi fare una sorta di tagliando e verificare se andare avanti. Ancora.

In omaggio alla lunghezza, appunto, fino ad ora, più che a fare le riforme si è pensato ad annunciarle: convocando tavolate di saggi e pensando di modificare, senza ancora entrare nel merito, la procedura di revisione costituzionale: l’articolo 138. Ma da ultimo – siccome Forza Italia non ci sta più e il percorso di riforma che muove dalla riforma dell’articolo 138 è divenuto troppo complicato – questa strada è stata abbandonata. Così, senza battere ciglio; senza spiegare che sono stati persi sei mesi. Gli stessi persi per la riforma elettorale, di cui il Senato ha discusso mesi a vuoto, fino ad essere superato da una decisione – di incostituzionalità – della Corte costituzionale. A quel punto il Senato si è arreso e la riforma è passata alla Camera.

Senza ancora una proposta chiara da parte di nessuna forza politica (l’unica ipotesi che a volte sembra trovare i consensi sufficienti è la legge Mattarella, che però viene poi sistematicamente tolta dal tavolo), con leader che cambiano idea e sfornano modelli in continuazione: in due anni, siamo passati dal tedesco all’ungherese, dallo spagnolo all’Ispanicum (sua versione italianizzata), al Porcellum a doppio turno, al super Mattarella con doppio premio (un’altra aberrazione).

In tutto questo, naturalmente, si continua a parlare (e solo a parlare) di riforme costituzionali, che il Presidente continuava, anche ieri, a chiedere, insistendo nel collegare a queste riforme l’orizzonte della legislatura. Riforme più strette. Certo. Come più strette sono ormai le intese (riforma del bicameralismo e riduzione del numero dei parlamentari, talvolta però un po’ allargate nuovamente a province e regioni).

Senza dire che, se fossero state affrontate subito, potevano già essere in vigore, con una nuova legge elettorale.

Invece, sul piano delle riforme costituzionali ed elettorali non è stato fatto niente. Questo, però, dovrebbe suggerire che in questo Parlamento fare riforme strutturali troppo ampie non è possibile e spingere, quindi, per la ricerca di una rapida soluzione alla riforma elettorale (la scorsa settimana una maggioranza sul ritorno alla legge Mattarella c’era, con Pd, Sel, M5s, Lega e Scelta civica).

Invece, si continua con lo schema di aprile, a ribadire la necessità di fare le riforme costituzionali e quindi di andare avanti con quelle strane intese che si sono ristrette in largo e lungo, ma che devono durare – pare – almeno fino al 2015 (l’«almeno», e lo spiego per l’ultima volta, è determinato dal fatto che, anche se le riforme partissero immediatamente, finirebbero a 2015 inoltrato, con il referendum).

«Senza alternative», anche se quella attuale è parecchio alternativa, perché non essendoci più Berlusconi, questa maggioranza non arriva a rappresentare il 50% dei voti di febbraio (perché Berlusconi ha tutti i difetti del mondo, ma i voti a febbraio li aveva presi lui, non certo Alfano).

Dice il Presidente: non si torna indietro. Ma non si va neppure avanti, a quanto pare.

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