Ho letto Indagine sul ventennio di Enrico Deaglio (Feltrinelli).

Premessa: a me Deaglio piace (da un ventennio, appunto) e avevo molto apprezzato il suo libro precedente, dolorosissimo, Il vile agguato, dedicato alla strage di via D’Amelio.

Il suo racconto degli ultimi vent’anni (calcolati con precisione maniacale, perché iniziarono il 27 marzo del 1994) l’ho letto appena l’ho ricevuto, di corsa, senza potermi staccare dalle sue pagine nemmeno per un momento, fino a tarda notte, all’ora in cui pare finissero le feste di Arcore.

Il risultato è una profonda desolazione, un dispiacere che viene da dentro, pensando agli anni che sono passati (i migliori della nostra vita, almeno per la nostra generazione), a quella Lombardia da cui tutto è partito (una Lombardia molto vicina alla Sicilia, nella lettura di Deaglio), al degrado e allo scivolamento in senso morale e civile e politico e linguistico, al tempo perso: ogni anno buttato via vale almeno doppio, perché intanto il mondo cambiava e noi stavamo fermi e, per certi versi, tornavamo proprio indietro.

Come dice Silvia Ballestra, rispondendo a Deaglio, in una delle interviste contenute nel libro:

Mi deprime l’idea dell’occasione mancata, dei vent’anni persi, dell’arretramento, dei guasti. Del fatto che avremmo potuto essere un paese migliore, senza. C’è stata molta volgarità, in questi anni, molta sopraffazione, molta iniquità. Ricchi arroganti che sono diventati più ricchi, l’esaltazione dell’evasione fiscale, l’attacco allo stato sociale, la rissa continua, la riprovevole vicinanza a Bush e a Putin, i toni sempre sopra le righe, nessuna politica vera che non fosse una politica ad personam, l’opposizione sempre tra- gicamente inadeguata, il sacco continuo della politica.
Diciamo che tutto ciò non mette di buonumore.

Anni che valgono doppio e forse anche di più, se è vero che gli effetti continuano a farsi sentire prepotentemente e questo ventennio si allunga e non passa nemmeno quando sembra che sia tutto finito. Com’è puntualmente accaduto, ogni volta che ne abbiamo celebrato, troppo precipitosamente, la fine.

Ogni episodio colpisce nel segno, per la bravura di chi lo racconta, certo, ma anche per la potenza (quasi sempre negativa) della storia in sé: soprattutto quando si tratta di donne e stranieri, di cultura e di rispetto della legalità e delle istituzioni.

Si è scherzato parecchio, in questi anni, come se fosse tutto un gioco, come se tutto fosse possibile. Come se non ci fosse un passato, prima, né un futuro, dopo, ma solo un presente, qui e ora, e di quello che è successo ieri e di quanto accadrà domani chissenefrega.

Forse, quella degli ultimi vent’anni, è stata una non-Repubblica, un luogo tra la realtà e il reality in cui si sono perse le proporzioni di quanto stava accadendo, il senso delle parole, i veri bisogni di un paese che già stava scivolando quando il ventennio – vera e tragica unità di misura della storia italiana – è iniziato.

Desolante è anche registrare che tutto sommato (quasi) nessuno si è ribellato più di tanto. Come se fosse davvero una storia italiana. Una storia incredibile, nel senso etimologico, che è accaduta davvero. Una storia che nel bene o nel male (e nel male soprattutto) ci appartiene. E che prosegue, come una condanna.

I vent’anni esatti che sono passati portano a risalire la scala dei ricordi, fino a quel giorno di marzo, quando ero ancora al liceo. E viene da chiedere: voi, la sera del 27 marzo del 1994, dov’eravate?

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