Rispondo con piacere al messaggio che Noise from Amerika ha inviato ad Alessandro Gilioli e al vostro affezionatissimo.

Sandro Brusco, autore dell'articolo, attacca violentemente Guido Rossi (definito in modo un po' spericolato «cattivo maestro») e noi, per avere ripreso i contenuti della sua intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa, che a me era piaciuta per molti motivi, che per altro lo stesso Brusco sembra condividere (pur definendoli «ovvi»). Mi riferisco soprattutto alla prima parte dell'intervista, che mi pare ineccepibile.

A Brusco, che mi chiede conto delle affermazioni di Rossi circa il nesso tra crisi e disuguaglianza, consiglio ovviamente (e senza polemica) di chiedere a Rossi, che sono certo avrà cura di rispondergli. Sullo stesso argomento si è, del resto, prodotto Fitoussi su Repubblica, domenica, e potrebbe essere utile discuterne anche con lui (e con Rampini che lo accompagna, sullo stesso giornale, anche a proposito di globalizzazione e di nuove economie, il passaggio forse più discutibile dell'intervista di Rossi, che Brusco cita diffusamente).

Per quanto mi riguarda, a proposito di lezioni sbagliate che mi vengono attribuite, il mio modestissimo fine per l'Italia è, come scrivo da tempo, rompere questa schizofrenia per cui chi vuole remunerare il merito sembra non preoccuparsi della disuguaglianza mentre chi si preoccupa della disuguaglianza sembra non essere affatto preoccupato dall'affermazione del merito. E soprattutto i nessi che intercorrono, tra disuguaglianza e merito, in entrambi i casi. Detta in sintesi, per riassumere tante discussioni in merito.

 
Rispetto alla crisi concordo con Brusco che il nesso con la disuguaglianza (il rapporto causa-effetto), così come delineato da Rossi in una risposta della sua lunga intervista, non sia conclusivo, segnalo però che c'è un ottimo argomento, di cui ho discusso tempo fa con Filippo Taddei, che rovescia il punto di vista e ci aiuta a ragionare. E il «maestro» in questo caso, per Brusco, non dovrebbe risultare «cattivo».
 
Raghuram Rajan, professore a Chicago e già FMI, propone un tema molto semplice: di fatto sostiene che, di fronte alla divaricazione dei salari tra lavoratori che avevano investito nel proprio capitale umano e lavoratori che non l'avevano fatto, la politica americana è stata sostanzialmente assente.

Il mercato allora fa quel che fa: soddisfa i bisogni come meglio può e lo fa attraverso un'estensione del credito. Certo, ci sono condizioni internazionali che facilitano questa risposta: il grande surplus di risparmi della Cina e del Giappone e dei paesi esportatori di petrolio deve finire da qualche parte e il sistema finanziario meglio in grado di accoglierlo è quello americano. Il problema è però che abbiamo lasciato fare al credito quello che è il mestiere della politica, con una particolare eccezione, non virtuosa, che riguarda l'Italia: perché da noi facciamo fare alla politica quello che è il mestiere del credito, quando lasciamo che sia la politica e non il mercato a selezionare le imprese.

 
Per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, inoltre, citerei, il lavoro di raccolta dati di Thomas Piketty, che ha deciso di 'votarsi' alla raccolta dati sui redditi dei più ricchi (top 1 e 5%) e i risultati sono portentosi e palesi a tutti: li trovate qui.
 
Ciò per ribadire, ancora una volta, che un sistema economico che premia il merito ci piace, uno che premia in maniera così sproporzionata chi è ricco, un po' meno. Anche perché gli incentivi individuali sotto forma di reddito vanno bene ma, oltre una certa soglia, non sono incentivi ma più probabilmente rendite. E questo discorso vale soprattutto per l'Italia, proprio in ragione di quella scarsa propensione al rischio che riguarda prima di tutto il resto proprio la politica. E l'immobilismo del nostro sistema.

Di «maestri» insomma ce ne sono molti, l'importante è, come in questo caso, accettare la «lezione».

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