Sottotitolo: del requin o della globalizzazione. Il Punto G di Bamako (evitare battutacce) è un punto panoramico da cui si ammira tutta la città, le sponde del Niger (calmo e placido al passaggio dello sguardo) e l’umanità che si muove. Preferibile al tramonto. Intorno si aggirano gli studenti di medicina, che ripetono come si fa in biblioteca, o forse in un luogo di culto. Tutto è calmo, ma è presto per affermarlo con certezza, perché tra poco si ritorna in città, dove ci sono tutti. E non è un’espressione enfatica: nelle città africane, per le strade e nelle piazze, ci sono proprio tutti. Gli abitanti della città e delle cittadine che noi, abituati alle metropoli europee, diremmo dell’hinterland. Per tornare in città, niente «taxi». Si prende un taxi collettivo, mezzo che impazza qui in Mali, nella versione requin. Ovvero, non un pullmino, proprio un taxi che si collettivizza, riempiendosi della bellezza di dieci persone. Tre davanti, quattro in mezzo, tre (noi) dietro. E in mezzo anche due bambini, che solo il nostro provincialismo mi fa vedere come i bambini che stanno sulle attrazioni di Gardaland. Il requin, del resto, lo chiamano così, perché sembra un pesce, uno squalo nella traduzione letterale (ma preferisco pensarlo come un delfino), che sobbalza sui suoi esausti ammortizzatori, parte con la spinta e sfruttando la discesa (anche in presenza di incroci), prende quasi tutte le buche, arriva a destinazione in un piazzale con un sacco di suoi simili, che si ristorano, che vengono riparati, che forse nemmeno riusciranno a ripartire. Siamo in tanti, forse troppi, alle prese con un mondo che ci stringe, a volte ci mette l’uno contro l’altro, che ci sopporta a fatica. E che forse nemmeno può permettersi così tanta umanità. Ma siamo tutti sullo stessa barca. Volevo dire: sullo stesso requin.

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