Da qualche giorno i trivellatori di Twitter dell’entourage del premier attaccano a pallettoni Michele Emiliano (che al congresso votò Renzi: chissà se è ancora dello stesso avviso, chissà).

Gli ricordano le «cozze pelose» di un infelice episodio di quando era sindaco, gli chiedono perché non sia intervenuto sulle ferrovie dello scandalo (sulle quali peraltro è intervenuto e che sono del governo e non della sua Regione), lo accusano di minare la stabilità del suo partito e del suo governo.

Un attacco concentrico, in piena regola: un metodo goffo per nascondere le contraddizioni del Pd, l’incredibile scelta di buttare a mare 300 milioni di euro per tenere lontano il referendum dalle elezioni amministrative (e dal quorum, a proposito di partito democraticissimo), la posizione di chi ha votato a favore in aula ma ora vota contro al referendum, le dichiarazioni dei dirigenti quando erano giovani con tanto di striscioni no-triv e le dichiarazioni contrarie di oggi, la linea ufficiale di astensione, che ricorda le ‘perle’ democratiche di Craxi e Ruini, la considerazione di inutilità di un referendum che il governo avrebbe potuto evitare, come ha evitato (più o meno) tutte le altre questioni contenute nei quesiti presentati dalle Regioni del Pd e non solo dalla Puglia.

Ora, fossi in Emiliano avrei fatto scelte politicamente diverse (fin dal Congresso, ovviamente), ma ci si chiede come possa un partito funzionare così. Una risposta me la sono data da tempo, forse il 17 aprile se la darà anche Michele. E con lui le cittadine e i cittadini che rappresenta.

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