Giuseppe Allegri spiega perché sindacati e governo siano divisi su tutto ma si ritrovino uniti nella lotta contro il reddito minimo.

Il governo si è già espresso e i margini di manovra sembrano essere prossimi allo zero ma i sindacati dovrebbero capire il reddito minimo garantito è uno strumento che potrebbe permettere loro di ripensarsi come spazio di tutela di «tutte le persone alla ricerca di un lavoro degno» (come del resto succede in Belgio, Danimarca, ecc.) e non solo come baluardi della cittadella assediata, e sfiancata, del lavoro salariato.

Questa sì che sarebbe una bella rivoluzione.

Sono venuti al pet­tine i nodi sulla que­stione del red­dito minimo garantito/reddito di cit­ta­di­nanza, secondo le dici­ture dei due dise­gni di legge (Sel e Cin­que stelle) in discus­sione al Senato. Con il Mini­stro Giu­liano Poletti che espli­cita la sua posi­zione con­tra­ria e anti­cipa un «piano ope­ra­tivo nazio­nale per l’inclusione sociale».

È il Red­dito di inclu­sione sociale gestito da sin­da­cati e Terzo set­tore, che pare limi­tarsi al pur nobile obiet­tivo di con­tra­stare la povertà asso­luta nel nostro Paese, magari creando lavoro camuf­fato per quelle stesse strut­ture. La solita ottica pater­na­li­sta, pau­pe­ri­stica e cari­ta­te­vole che tra­muta il Wel­fare in Workfare.

Nulla a che vedere con quanto si discute nelle audi­zioni presso l’Ufficio di Pre­si­denza della Com­mis­sione Lavoro. Lì, tra qual­che dif­fi­coltà e frain­ten­di­menti, si sta pren­dendo coscienza della neces­sità di intro­durre un red­dito minimo garan­tito come archi­trave di un Wel­fare uni­ver­sa­li­stico che il nostro Paese non ha mai avuto e che l’Unione euro­pea «ci chiede» di pre­ve­dere dal lon­tano 1992. Si tratta di un nuovo diritto sociale fon­da­men­tale, che den­tro l’impoverimento di lar­ghi strati della società resti­tui­rebbe fidu­cia, auto­no­mia e benes­sere alle per­sone: con­tro i ricatti di povertà e mala­vita, per inve­stire sulle aspi­ra­zioni delle per­sone e su una nuova idea di Paese e società.

È una pic­cola rivo­lu­zione coper­ni­cana che fa brec­cia anche tra sena­tori e sena­trici ini­zial­mente scet­tici, dando seguito alle indi­ca­zioni dell’Europarlamento del 2010: «I sistemi di red­dito minimo ade­guati deb­bano sta­bi­lirsi almeno al 60% del red­dito mediano dello Stato mem­bro inte­res­sato», per garan­tire un’esistenza libera e digni­tosa. E non si dica che non ci sono i soldi; quando baste­rebbe par­tire da una razio­na­liz­za­zione delle spese sociali esi­stenti sulle inden­nità di ultima istanza (spesso ini­que e fonti di abusi) che ammon­tano a oltre 30 miliardi di euro l’anno.

  •  
  •  
  •  
  •  

Commenti

commenti