Per molti versi è una «non campagna» elettorale. Lo è perché di Europa si è parlato pochissimo, tutti concentrati sulle questioni locali, provincialissime, dell’Italietta. Gli alleati di governo hanno preso la scena, dialettizzando. Gli altri sembrano gli opossum, come Makkox disegna Zingaretti, fermi immobili, tutti legati a un punto in più o in meno in termini percentuali. Nessun nuovo progetto politico all’orizzonte.

Anche la mia era nata come «non campagna» elettorale, al servizio di altre candidature e di un progetto politico in cui mi riconosco e di un tema urgentissimo, quello dei cambiamenti climatici. Il tempo cambia ma noi no, e invece dobbiamo farlo subito. E cambiando andrebbero a posto anche tutte le altre questioni, per ridare una vocazione all’Europa, per innovare il nostro paese, per fare quelle cose che riducono le emissioni, aumentano la qualità del lavoro e della produzione, cambiano i rapporti di potere e di forza, in una società sempre più diseguale. Non una scelta identitaria, una scelta progettuale.

Era una «non campagna» perché era prima di tutto una questione culturale e politica nel senso più alto, quella che si poneva.

Ed è diventata una «non campagna» perché la pessima gestione delle liste e delle opacità da parte dei nostri compagni di avventura nella lista Europa Verde mi hanno portato a sospendere la mia personale campagna, perché non si può essere rigorosi solo quando la questione non ci riguarda. Perché ci vuole chiarezza. Sempre.

E però è stata una «non campagna» che mi ha fatto riflettere, perché è sempre campagna elettorale, da parte di tutti, senza requie. Anche quando non ci sono le elezioni la politica italiana si è ridotta a quello. A una messa in scena di se stessi, di un ceto politico che ingloba tutto, anche gli anti ceto, che diventano ceto in un batter d’occhi.

Ed è stata, questa sì, una campagna che mi ha portato al confine con la Svizzera, sulle tracce di Liliana Segre, per ricordare che l’Europa e la nostra stessa Costituzione e l’aggiornamento delle convenzioni internazionali sono nate proprio come reazione e riscatto di ciò che successe, qui da noi, dal 1938 al 1945 (e anche prima, che tornano pure i sansepolcristi).

Una campagna che mi ha fatto ‘ammirare’ la riduzione dei ghiacciai, sulle Dolomiti del Brenta, le nostre Alpi, per le quali al Nord si sprecano tonnellate di retorica e non ci si rende conto che le stiamo perdendo.

Una campagna che mi ha portato a Ostia, dove c’è Pasolini, e l’erosione delle coste e anche del tessuto sociale. E politico. E istituzionale. E c’è la mafia.

Una campagna che mi ha riportato a Riace, deserta, e a San Ferdinando, dove si tocca con mano la disumanità del sistema e la nostra ipocrisia.

Una campagna fatta di libri da leggere, che ho segnalato ogni giorno, da Franzen a Mancuso, da Diamond a Wu Ming 1, e qualche cosa che ho scritto anche io, per parlare di Greta Thunberg e di Alex Langer. A due generazioni di distanza.

Una campagna che mi ha portato in campagna, a Reggio Emilia, con i maestri apicoltori, e mia figlia Nina, una piccola ape anche lei, a cui questa campagna è dedicata.

Una campagna che mi porterà domani a Ventotene, dove tutto è iniziato, dove il regime aveva confinato i migliori, creando i presupposti di quel riscatto di cui avremmo bisogno anche ora. Nella penisola di Pasqua, che vorrebbe addirittura staccarsi dall’Europa per vagare chissà dove, quell’isoletta ancora ci interroga. E in quel caso quel piccolo scoglio il mare lo ha arginato. Il mare nero, dell’indifferenza, della cattiva politica, delle cose interessate, fatte male, senza pensare al domani. Dell’inciviltà.

Ecco, la mia «non campagna». Che proprio perché non lo è, non finirà di certo il 26 maggio. Perché il tempo stringe, e si stringono le pareti delle stanze di una politica sempre più asfittica, claustrofobica, inutile. Anzi, pericolosa per la nostra stessa sopravvivenza.

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