44 milioni di euro, il business
6 milioni, le entrate fiscali
500, i growshop
960, i posti di lavoro stabili
200% in più, gli ettari coltivati a canapa dal 2014
50, le tonnellate prodotto ogni anno (previsione)
250, le aziende agricole già attive
800, le aziende pronte a partire

I dati sono riportati oggi dal Venerdì di Repubblica, in un pezzo di Michele Bocci. Riguardano la cannabis light e l’attività di EasyJoint (e non solo, perché altre iniziative si muovono e si muoveranno) che la produce e la commercializza:

Tutto è partito grazie alla legge 242 del 2016 sulla canapa industriale, che è entrata in vigore nel gennaio del 2017. Norme che hanno reso più semplice per le aziende agricole coltivare la pianta (ad esempio non sono più obbligate ad avere una autorizzazione dalle forze dell’ordine) per realizzare tessuti, cosmetici, alimenti, bioplastiche. La legge, inoltre, specifica che, per escludere la responsabilità penale dell’agricoltore, la singola varietà di canapa deve contenere tra lo 0,2 e lo 0,6 per cento di thc. Dei fiori però non si parla. Ed è su questa mancanza che è nata l’idea di EasyJoint — azienda formata da quattro soci: Mirco Lentini, Federico Valla, Luca Marola, da molti anni gestore di grow shop, e Leonardo Bronzini, che si occupa di coltivazione della canapa industriale: «Visto che i fiori non sono citati nella legge tra le parti della pianta utilizzabili a fini commerciali, fino all’anno scorso non avevano mercato e così gli agricoltori li distruggevano o li usavano come concime. Siamo arrivati noi e gli abbiamo chiesto di cederceli, anche a prezzi importanti» spiega Merola. «A loro non pareva vero». Risultato? La loro azienda oggi copre l’85 per cento del mercato tra chi coltiva e chi vende e gestisce direttamente tre negozi, a Milano, Roma e Pantelleria.

Questa cannabis non è uno stupefacente. Stupefacenti, al massimo, sono i risultati, soprattutto per chi non conosce la storia di questo paese e si muove tra ipocrisie e pregiudizi per non cambiare mai.

Colpito da questi dati e da questi numeri, ho chiamato Luca Marola, con cui in passato abbiamo condiviso parecchie battaglie, tra Parma, Roma e Reggio Emilia, in occasione di più di un PolitiCamp.

Luca sottolinea l’importanza culturale di questa iniziativa imprenditoriale. Enfatizza soprattutto il dato dell’indotto (per sua natura difficile da quantificare, soprattutto per un mercato nuovo): da chi produce avviando di nuovo un’antichissima filiera a lungo perduta fino a chi la distribuisce, dal personale dei growshop a chi cura tutti gli elementi della commercializzazione del prodotto. E poi cala l’asso: l’export di una «sostanza» che si può infine vendere al di là dei confini nazionali, rovesciando un drammatico luogo comune che riguarda la cannabis e la sua importazione illegale, che rende miliardi di euro ed è gestita dai soliti, marci e però immarcescibili circuiti mafiosi. «È già un fenomeno europeo, la cannabis light», ricorda, dal Portogallo all’Estonia, dal Regno Unito alla Polonia, dove sono partite iniziative analoghe.

«Legalizzare con successo» è il titolo di un libro di Marola di cui ho curato la prefazione: non è ancora così, certamente, ma ciò che EasyJoint ha inteso promuovere non è solo un business riuscito, è un messaggio al legislatore e all’opinione pubblica. Meglio legalizzare e regolamentare che proibire, indiscriminatamente, senza ottenere alcun risultato. Meglio controllare il prodotto che affidarsi alla merda prodotta chissà dove e tagliata con chissà cosa.

Molto meglio.

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