Il titolo del libro di Zygmunt Bauman (Retrotopia, Laterza 2017) serve a descrivere un’intera epoca e sembra adattarsi perfettamente alla politica europea e anche italiana. Nessuna utopia, nessun sogno (come per gli androidi di Blade Runner 2049, a cui non è permesso sognare, nemmeno «un po’»), ci si rivolge al passato o si citano cose e persone degli anni scorsi come se fossero le uniche «possibili». Una forma di nostalgia che impedisce di pensare a qualcosa di nuovo: è tutto un ritorno, alla ricerca del guscio in cui ripararsi, mantenendo di fatto inalterati i rapporti di potere.

Nessuna finestra, insomma: solo specchietti retrovisori. E con ciò nessuna vera autocritica: una grande continuità.

Tutto deve essere riportato a ciò che c’era prima, nessuna innovazione è ammessa. Peggio: gli innovatori spesso sono i più retrotopici, auspicando un cambiamento che non è nient’altro che la riproposizione di formule del passato più o meno recente che non hanno funzionato. Parlano di futuro e ti ritrovi Reagan, più o meno interpretato. Nessun cambio di paradigma, nessuna rottura dello schema. Così, di fronte alla globalizzazione, o alla robotica, o ai cambiamenti climatici, si cerca di tornare a assetti precedenti. Una rimozione del divenire, abbastanza impressionante.

Bauman – in dialogo con Bregman, di cui abbiamo parlato qui – descrive un’urgenza diversa: la distopia è quella che vediamo intorno a noi, per una parte consistente della popolazione, che tende ad allargarsi. Una distopia che ci parla di un «presente terra straniera», per riprendere in altro modo la famosa tesi di David Lowenthal. A disagio nel presente, non dobbiamo guardare al passato, ma inserirci nella grande transizione per governarla, evitando per prima cosa di diventare gli asteroidi di noi stessi. Questo è il compito della politica, non altri.

Elemento fondamentale di questa ricerca è un’analisi della grande e molteplice «disuguaglianza» che, ricorda Bauman via Milanovic, era parola eversiva, fino a poco tempo fa. Ora pare essere tornata in auge e si impone nel dibattito pubblico, soprattutto a sinistra, come elemento imprescindibile per parlare di riforma del sistema, che non escluda una parte sempre più consistente della popolazione.

Indagarne le ragioni, correggerne con decisione le enormità, proporre un nuovo modello di sviluppo, è cosa non più rinviabile, anche perché l’abbiamo rinviata già troppo.

Se vogliamo fare politica, dobbiamo ripartire da qui. Cambiando lo sguardo e la sua direzione, prima di tutto.

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