Nel post dell’altro giorno ho scritto: autonomia e unità per me rappresentano un’endiadi.

Dopo qualche ora è partito sui social un appassionante dibattito secondo il quale non si devono usare parole difficili, così non ci capisce nessuno, dobbiamo parlare facile, ecc.

Ora, al di là della scelta della parola «endiadi» (ci si può sempre appellare al compagno Google e alla maestra Treccani, nel caso), il punto è che se si vuole fare buona politica si devono scegliere non le parole facili, ma le parole giuste, possibilmente inserite in un contesto che sia comprensibile e coerente: ogni tanto, provare a usare termini che affermino un concetto può essere utile a chiarire sia i termini, sia il concetto.

Del resto, il linguaggio della politica è già così banale, con punte di sorprendente volgarità oppure di inarrivabile tecnicismo (la parola giusta, in questo caso, sarebbe «argot», perché si tratta di un gergo che esclude gli altri): proviamo a parlare bene. Se poi non conosciamo il significato della parola, o non ci ricordiamo dove l’abbiamo già letta e sentita, vorrà dire che impareremo qualcosa.

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