Le parole sono importanti. Non solo e non tanto perché chi parla male pensa male, o perché bisogna trovare le parole giuste, come prosegue Moretti, ma perché le parole sono rivelatrici: del clima in cui viviamo, di chi lo influenza, di cosa nuota nel flusso del discorso pubblico.

È quindi curioso osservare come in un momento storico di grandissima polarizzazione dell’opinione pubblica, e in cui tutte le principali forze politiche si considerano più o meno post-ideologiche, le parole dominanti sono sempre le stesse, e sono quanto mai dominate dall’ideologia.

Provate a leggere i commenti a un qualsiasi post sui social, o ad ascoltare una conversazione sull’autobus o al bar: tolti i riferimenti diretti alla propria fazione politica, le parole sono sempre le stesse, l’atteggiamento che tradiscono è lo stesso.

Un atteggiamento bipolare ciascuno nel suo particolare, nel rivendicare da un lato il proprio desiderio di essere come tutti, parte della maggioranza più o meno silenziosa, e dall’altro la propria diversità, il proprio essere altro rispetto alla massa ignorante (sia essa fatta di “pidioti” o di “grullini”) male informata o spinta da vergognosi interessi.

E viene da pensare, di nuovo, a Palombella Rossa di Moretti: “Noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi!”

E proprio come Michele Apicella, questo improbabile monologo viene urlato dentro a una macchina che sta finendo in una scarpata.

Siamo tutti uguali. Sono tutti uguali.

Fermandovi al brusio indistinguibile che fa da sottofondo a una partita di calcio, riuscireste a distinguere i cori di una tifoseria da quelli dell’altra? Eppure non c’è nemico più acerrimo di quello che abita la curva di fronte alla nostra. Anche quando magari ciò che distingue l’uno dall’altro non è nemmeno il motivo sulla maglia, ma solo uno dei due colori che lo compongono.

E non ha torto Slavoj Žižek quando dice che l’epoca della post-ideologia è in realtà la più ideologica che si sia mai vista. Se, infatti, l’ideologia è “quell’insieme di assunti e presupposti impliciti che ci dicono quello che è possibile e quello che non lo è” come definire se non puramente ideologico il filtro di lettura che ogni tifoseria dà della realtà?

Si può definire post-ideologico il continuo richiamo all’assenza di alternative (a ciò che non è possibile) invocato da Renzi e dai suoi a scudo delle proprio scelte? Sono post-ideologici i richiami all’inevitabile rivoluzione della rete contro il palazzo, dove sono tutti già morti, della narrazione di Grillo? E non sono questi i presupposti degli stessi richiami sentiti durante la campagna referendaria, dal “Non è un sì o no, è un sì o mai” di Renzi, al sì come “serial killer della vita dei nostri figli” di Grillo?

E chi credeva che passato il 4 dicembre gli animi si sarebbero sopiti si sbagliava, perché a forza di non voler ripetere il 4 dicembre, si vive in un perenne clima da vigilia, un crescendo continuo in attesa di un climax che non arriva mai, non può arrivare. Perché le due curve si tengono e si nutrono l’una dell’altra, o meglio della propria ossessione per l’altra.

Non post ideologia, quindi, ma über-ideologia, nel senso del dominio di un’idea prevalente nell’accezione psichiatrica del termine, cioè un’idea fissa, che domina la coscienza, a forte tonalità affettiva, intorno alla quale il soggetto organizza un sistema delirante, di rivendicazione, di gelosia.

Una sorta di psicosi collettiva, guidata da chi in questi anni ha imposto parole sbagliate. Come già scritto da Mark Thompson, i leader politici hanno non solo la capacità di utilizzare le parole per sfruttare l’umore collettivo, ma anche per guidarlo. E appare evidente che lo stanno guidando, come Apicella in Palombella Rossa, in una scarpata. Per questo le parole sono importanti.

Per questo non si può non osservare che sono Grillo e gli esponenti del Movimento 5 Stelle ad aver vinto la battaglia per l’egemonia culturale di questo periodo. Perché le parole che dominano il discorso pubblico sono le loro. I renziani, e persino i leghisti, sono loro epigoni, in questo.

E la sudditanza culturale si svela tanto più quando la si vuole negare, quando si rifiuta la presenza di un problema con toni e termini che lo evidenziano.

Il grillismo inconsapevole di chi ha come unico faro l’antigrillismo.

Sono tutti uguali. L’assunto principale del grillismo iniziale è, infatti, proprio quello del sono tutti uguali, rubano tutti alla stessa maniera (che è solo un modo per… come diceva De Gregori, in una canzone di quanti anni fa?).

Una sorta di versione parodistica dell’articolo 3 della Costituzione.

Se sono le parole e il discorso pubblico che compongono a dare forma al nostro futuro, solo trovando le parole giuste, che diano una diversa cornice al possibile, saremo in grado di costruire giorni migliori per il nostro Paese.

Perché ci sarà bisogno di costruire, e di ri-costruire, al termine di questo periodo che, come tutte le epoche di passaggio, sa quel che lascia ma non ciò che trova, uno stallo che mal si confà a chi si erge a portavoce del grande cambiamento, e che per questo vive in un eterno presente in cui il domani è sempre imminente.

Spente le luci sul palco, scopriremo che nulla di quanto promesso è stato costruito, perché lo spettacolo era tutto nelle luci, appunto.

E scopriremo che il meteorite, la catastrofe da evitare ad ogni costo, stava proprio nell’assenza di ogni azione politica e pubblica, mentre il resto del mondo andava avanti. Trascinandosi dietro chi non aveva saputo accogliere, governare il cambiamento, il passaggio.

Quello che ci serve, quindi, oltre a un nuovo dizionario della politica e della vita pubblica, che ci dia le parole giuste, è un manuale di istruzioni, che da quelle parole sappia ricostruire quelle cose di futuro che da troppo tempo attendiamo.

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