Come ampiamente prevedibile il Pd è diventato il PdR. Anche le percentuali dei congresso lo confermano. Ed è l’ovvio risultato di un percorso iniziato con la vittoria delle primarie 2013 e della sostituzione di Letta, soprattutto.

Le difficoltà che incontra il candidato di rottura dimostrano che nel Pd non c’è alcuna volontà di ribaltare questo schema politico. Qualcuno dice che è un congresso farsa: non la penso così. Non solo per ragioni di rispetto, ma per ragioni politiche. La linea a sostegno delle larghe intese che, pur ridotte, ancora reggono la maggioranza di Renzi, del suo governo e delle sue ‘riforme’ raccoglie il 99% dei voti degli iscritti, perché anche il candidato attualmente al secondo posto è stato ministro, lo era prima di Renzi e lo è ancora con Gentiloni.

Chi la pensa diversamente si colloca nella posizione di Isacco, pronto al sacrificio, nella speranza che la benevolenza (non proprio proverbiale) del capo non li escluda dalle scelte (e anche dalle liste).

Peraltro, com’è noto, il segretario uscente e rientrante vuole andare a votare a settembre, il 24 per la precisione, vuole «forzare» (strano) sulla legge elettorale, vuole archiviare Gentiloni prima che si può, vuole evitare l’emergere di figure diverse che possano competere (da qui l’agitazione per il caso Calenda).

Fa dire al già bersanianissimo Martina che non si può andare con Bersani: una prova di fedeltà di forte impatto. Fa capire a Pisapia e Boldrini che va bene allearsi con loro se si distingueranno dalla minoranza dei fuoriusciti, continuando nel percorso delle ‘riforme’. Rifiuta la «coalizione» coerentemente rispetto a quanto fatto finora, nonostante i clamorosi fallimenti.

Crede di poter recuperare a destra, nella speranza che Berlusconi e Salvini non trovino la quadra, sulla base del solito triangolo delle Bermuda, tra Alfano, Verdini e i moderati di Forza Italia e di Mediaset, per intenderci.

Insomma è un Renzi in purezza, che non intende cambiare il proprio profilo.

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