Un anno fa, tra Italicum con fiducia multipla e riforma della scuola, ho lasciato partito e maggioranza.

Molti hanno ritenuto che io avessi atteso troppo, trascurando il fatto che dall’anno precedente mi ero battuto perché qualcun altro – oltre a me e a Luca Pastorino, che mi anticipò nella “scelta” – si opponesse chiaramente e nettamente ai numerosi tradimenti elettorali che il Pd ha inanellato, partendo dalla riforma elettorale, da quella costituzionale, dallo Sblocca Italia, dall’abolizione di alcuni fondamentali articoli dello Statuto dei lavoratori, da scelte politiche di scivolamento a destra (oggi con Verdini e Alfano e Fitto la maggioranza è tornata ad essere un bicolore, Pd-Forza Italia, all’inizio solo emergenziale e ora tutto politico).

Per me non fu una scelta di calcolo, ma di banale coerenza. Anzi, ancora meno: di sincerità.

Peraltro gli stessi che allora mi contestavano per il fatto di essere rimasto dentro oggi mi guardano con rimprovero, quasi chiedendosi e chiedendomi perché non sono rimasto.

Si tratta del vecchio e logoratissimo argomento del cambiare da dentro, ancora frequentato da alcuni parlamentari che sono convinti che si tratti (1) di un passaggio del renzismo tutto sommato transitorio, a tempo determinato e reversibile e (2) di un quadro politico che si può cambiare senza particolari soluzioni di continuità, facendo leva su alcuni punti di forza proprio dall’interno.

Faccio un esempio per capirci. Se Renzi lancia un referendum-plebiscito su una riforma pasticciata in combinato con l’Italicum, alcuni dicono: «non va bene il plebiscito e – sia chiaro – bisogna cambiare l’Italicum. Stando dentro, vedrete che lo convinceremo». Salvo votare tutto quanto e ottenere dal capo la risposta tanto attesa: il referendum è su di me e sul governo (tesi sostenuta anche da Napolitano, come sapete) e l’Italicum non si cambia. Obiettivi raggiunti: zero. Sostegno al governo: di fatto totale. 

Personalmente penso che la strada sia diversa. Che il Pd – anche prima dell’avvento del ‘veltro’ fiorentino – sia portatore di politiche e di parole opache, che abbia compiuto un percorso che l’ha spostato e rovesciato, come il suo programma politico. Che abbia dimenticato i più deboli (la povertà, questa sconosciuta), che non abbia approvato norme egualitarie (come si era ripromesso di fare nel 2013), che abbia fatto cose proprio sbagliate (come togliere la tassa sulla casa a quelli come me o il limite all’uso del contante e altre amenità), che si rivolga al passato più che al futuro (come si può appprezzare rispetto alle scelte in campo ambientale).

La recente baruffa sulla magistratura (totalmente ‘spiantata’ dal punto di vista costituzionale), le prese di posizione sul referendum sulle trivelle, le scelte di potere (siamo passati dal modello «amici degli amici» al modello «amici dell’amico», dove tutti devono essere intimi al premier per ambire a posizioni di guida), il linguaggio dell’arroganza e dell’umiliazione dell’avversario o anche di chi è semplicemente in disaccordo (tra un ciaone e un attacco agli anziani costituzionalisti con tanto di indagine sulla loro data di nascita), una cultura politica contraddittoria e incerta, l’incapacità (anzi, la non-volontà) di prendere posizione su questioni di una certa rilevanza (la più attuale è quella del Ttip, per fare un esempio), l’azzeramento del dibattio interno ridotto a pura fiction (ricordate ElleKappa quando presagiva: «scorrerà del ketchup»?), la liquidazione di Marino con commissari e notai e la scelta di candidati che potrebbero benissimo essere candidati dalla destra, l’estensione della maggioranza a Ncd e Ala un po’ dappertutto, il fastidio verso la sinistra ribadito ogni volta che si può. E potrei proseguire, ma a me (almeno) pare sufficiente.

Certo, la fase politica è brutta, ma oltre a non doversi più intestare scelte che non si condividono, si può – anzi, si deve – lavorare a qualcosa di diverso. Come stiamo facendo con Possibile in tutte le città dove abbiamo potuto, con una scelta autonoma e unitaria rispetto a tutti coloro che hanno rifiutato (senza ambiguità) lo schema del partito della nazione. Una scelta limpida, da Torino a Milano, da Ravenna a Vittoria, da Napoli a Bolzano, in ogni città che vedete sulla mappa elettorale del 2016. Non tutti possono dire di avere assunto la stessa posizione: anche se stare dentro al partito della nazione è analogo ad allearsi con il partito della nazione. E spero sia chiaro una volta per tutte. Vi ricordate quando si discuteva della necessità di non allearsi con Casini? Ecco ora ci si allea con personaggi rispetto ai quali Casini è sinistro e mancino. Nel centro-sinistra il trattino è diventato un segno meno, anche perché nel centrosinistra ci sono persone, parole e proposte di centrodestra. Che è paradossale ma ormai fa parte del paesaggio.

Si possono scegliere campagne dimenticate, questioni travisate, posizioni contemporanee sui diritti e innovative sul piano della garanzia e della sovranità dei cittadini.

Si rinuncia al potere per il potere, per provare a restituirlo alle persone, in sintesi, sia che si tratti di riforme costituzionali o elettorali, sia che si parli di diritti del lavoro, di scuola o di ambiente.

Si cercano nuove parole e nuove modalità, all’insegna di un progetto di governo che possa risolvere alcune questioni essenziali per il futuro, non solo convincere elettoralmente nel presente. Un presente eterno, apparentemente senza conseguenze. Non è la parola veloce a doverci intrigare, ma la parola che rimane a doverci incuriosire.

Insomma, a spiegare tutto quanto c’è una questione che prima che politica è culturale e di senso. Questo per me è il punto. E da quando sono uscito mi pare, ogni giorno che passa, sempre più grande e più pericolosa. Un po’ per tutti.

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