Oggi Sergio Rizzo sul Corriere adotta il termine che personalmente uso da anni per spiegare perché alle fondazioni dei politici vanno applicati gli stessi criteri di trasparenza che si pretendono dai partiti politici: l’«opacità».

Lo abbiamo detto in tutte le sedi e in tutte le occasioni, dal Congresso di sei anni fa, a quello del 2013, passando per le discussioni sulla forma partito che tanto appassionano gli addetti ai lavori: risultati prossimi allo zero, alzate di spalle, dotte riflessioni che portano a nulla.

Oltretutto, con grande sorpresa, scopriamo oggi che le Fondazioni sono uno strumento opaco di per sé che male si adatta alle funzioni politiche che dovrebbe svolgere, rispetto proprio al tema della trasparenza e della pubblicità dei contributi che ricevono.

C’è poi l’argomento della privacy: come scrivo ne La condizione necessaria, che esce oggi in libreria, la questione della privacy per i finanziamenti alla politica non può né deve esistere. Se vado a una cena di finanziamento, ad esempio, in un’occasione pubblica e magari sotto i flash dei fotografi, è il caso che renda disponibile anche la registrazione del mio nome e del mio contributo. Altrimenti c’è qualcosa che non va: perché dovrei negare la pubblicità?

Certo, qualcuno potrebbe decidere di non partecipare alla cena, ma sono i ‘rischi’ del mestiere. Ed è sempre meglio rischiare di ricevere un finanziamento che scoprire dopo cena che c’era qualcuno di non proprio raccomandabile.

Come al solito, la politica si mobilita solo dopo le inchieste giudiziarie. E solo quando compaiono i titoloni. Poi tutto torna, in pochi giorni, all’anormalità.

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