«Giunti a questo punto», dice un esponente vicino a Pier Luigi Bersani, «è un po’ difficile non votare la riforma».

Dal suo punto di vista, ha ragione: Area Riformista, la corrente di Bersani, ha sempre sostenuto la riforma costituzionale, prima al Senato e poi alla Camera. Nessun emendamento votato, quelli presentati puntualmente ritirati. Qualche piccolo aggiustamento, ma nessun problema sul complesso della riforma. Nulla sul Senato non eletto, nulla sul nuovo centralismo, nulla sulle garanzie che non ci sono. Ricordiamo che al Senato, relatrice era Anna Finocchiaro, peraltro, e che solo dodici senatori non votarono la riforma, guidati da Vannino Chiti e Walter Tocci.

L’unica cosa che non si capisce è perché ogni volta si alzi, nelle settimane precedenti a ogni scadenza, un polverone che poi, alla fine, si posa sul voto immancabilmente favorevole.

La cosiddetta minoranza non fa altro che alzare palloni alla maggioranza e al premier che li schiaccia (i palloni e non solo). La battaglia da affrontare è sempre la «prossima»: così è stato sul Jobs Act, così nei vari passaggi delle riforme. Così sarà sull’Italicum, ma poi magari si vota a favore anche su quello.

Il dialogo ha qualcosa di surreale: «Vedrete», dice la ‘minoranza’,  «i decreti attuativi non conterranno i licenziamenti collettivi». Infatti, «li contengono», risponde il governo.

«O si cambia l’Italicum, o non votiamo le riforme», ammonisce la ‘minoranza’. «Se cambia qualcosa, salta tutto», replica il governo.

A quel punto ci si aspetterebbe che la ‘minoranza’ sia conseguente: e voti contro, visto che la condizione fondamentale («si cambi!») è negata fin da principio. Prima di votare lo si sa già che non cambierà un accidenti. E invece il sillogismo non si chiude mai. Si rimane sulle premesse.

L’effetto è micidiale: una settimana prima del voto, i dissidenti sono centinaia. Tre giorni prima, una cinquantina. Alla vigilia, se si arriva a una dozzina è un miracolo.

Sembra che i testi (dialoghi e plot) li scriva direttamente Palazzo Chigi, ma non è una sopresa, anche perché gli esponenti della ‘minoranza’, legittimamente, conservano i posti di governo e di sottogoverno, le presidenze e tutto il resto. E, ricordiamolo, tutto il gruppo, o quasi, viene dagli equilibri della segreteria precedente.

Se davvero le riforme non le andassero bene come dice, quella ‘minoranza’ ha i numeri (che personalmente non ho, avendo fatto le primarie dopo le elezioni) per cambiarle, fermarle, precisarle, correggerle. E invece alla fine va tutto bene così. 

Anything goes, diceva un filosofo. Che però era anarchico. In questo caso, invece, il capo non si discute davvero mai.

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