La chiamerei così, leggendo Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Il primo, ieri, prima che scattasse lo scaricabarile (che contribuisce più di ogni altra cosa a far traboccare fiumi e torrenti), scriveva:

Il disastro annunciato che colpisce l’Italia a ogni botta di maltempo innesca ogni volta gli stessi effetti: i primi giorni pianti e lacrime, imprecazioni, ipotesi di mega-piani risolutori. Subito dopo, le chiacchiere si dissolvono nel nulla e si torna alla consueta strategia dell’oblio. Eppure quel che è in ballo è la vita dei cittadini, la salute del territorio, la salvaguardia delle generazioni future. Viceversa, ci industriamo a sbandierare alibi: cambiamenti climatici, bombe d’acqua, il fato, la sfortuna. Ma non ci sono scuse: non è vero né che questi disastri siano imprevedibili, né che siano recente novità, dato che già negli anni 1985-2011 si sono verificati in Italia 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti (rapporto Ance-Cresme).

È vero invece che i governi d’ogni segno chiudono gli occhi per non vedere che l’Italia è il Paese più fragile d’Europa, col 10% del territorio a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mezzo milione di frane in movimento. Un solo rimedio è possibile: mettere in sicurezza il territorio, programmare e avviare grandi opere di manutenzione e salvaguardia. Fare, per quel corpo di tutti che è l’Italia, quello che ognuno fa per il proprio corpo: non aspettiamo una malattia grave per andare dal medico, corriamo ai ripari da prima, sappiamo che prevenire è meglio che curare. Non si eviteranno tutti i danni, ma se ne ridurrà enormemente il numero, la frequenza e la portata.

Quali sono i costi di questa mancata manutenzione? Secondo il rapporto Ance-Cresme, non meno di 3,5 miliardi di euro l’anno, senza contare morti e feriti. E quanto ci vorrebbe per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano? Qualcosa come 1,2 miliardi l’anno, per vent’anni. Dunque l’opera di prevenzione, nei tempi lunghi, non è solo un investimento, è un risparmio. Ma proprio questo è il problema: i nostri governi rifuggono dai tempi lunghi, sono anzi afflitti da cronica miopia. Non sanno guardare lontano, non praticano la nobile lungimiranza predicata da Piero Calamandrei («la Costituzione dev’essere presbite »). Sono afflitti da strabismo, anche: davanti ai peggiori disastri, ne distolgono lo sguardo e sognano “grandi opere” (cioè grandi appalti), proclamando che da lì, e da lì solo, verrà l’agognato benessere.

E la storia si ripete: nel 2009, dopo la frana di Giampilieri (Messina) che seppellì 39 cittadini, il sottosegretario Bertolaso sostenne che era impossibile finanziare la messa in sicurezza dell’area, e due giorni dopo il ministro Prestigiacomo proclamò che bisognava affrettarsi a fare (su quelle frane) il Ponte sullo Stretto. Con identica sequenza, a far da contrappunto ai lutti in Liguria è venuta la dichiarazione del ministro Lupi alla Camera (10 novembre): «Io sono sempre favorevole alla realizzazione del Ponte e credo sia un tema che qualunque governo dovrebbe porsi».

Anziché leggere i segni premonitori dei prossimi disastri nel paesaggio deturpato, nell’assenza di piani paesaggistici regionali (invano prescritti dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio), nella mancanza di una carta geologica aggiornata (per il 60% del territorio dobbiamo accontentarci di quella del 1862!), ci stracciamo le vesti a ogni disastro, come se i colpevoli non fossimo proprio noi. Questa incuria, che coinvolge anche un’opinione pubblica incline a distrarsi, è ormai “strutturale”, un dato fisso dell’orizzonte politico italiano. A chi giova? A chi pratica una selvaggia deregulation, che nega ogni pianificazione di lungo periodo e in nome della libertà delle imprese e di uno “sviluppo” identificato con la speculazione edilizia calpesta i diritti dei cittadini e la tutela del territorio.

Nessun governo ha finora avuto il coraggio di fare una spregiudicata analisi degli errori, prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale. Anzi, nel recente Sblocca- Italia si prevede per la manutenzione del territorio un contentino di 110 milioni, a fronte di quasi 4 miliardi di spese in nuove “grandi opere” che accresceranno la fragilità del territorio. Dopo la Bre-Be-Mi, autostrada fallimentare e semivuota, avremo dunque la Orte-Mestre, con un beneficio fiscale di quasi due miliardi per le imprese costruttrici. Verrà perfino ripresa la costruzione della Valdastico, già nota come Pi-Ru-Bi (Piccoli-Rumor-Bisaglia), e lasciata poi cadere perché superflua. Ma l’unica, la vera “grande opera” di cui il Paese ha urgentissimo bisogno (e che genererebbe moltissimi posti di lavoro) è la messa in sicurezza del territorio. Per imboccare questa strada manca a quel che pare l’ingrediente essenziale: un’idea di Italia, un’idea declinata al futuro.

Il secondo oggi, sempre su Repubblica:

Lascia interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.

Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che — tra il 1950 e il 2000 — hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo.

E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo: come ci ricorda un prezioso libretto di Domenico Finiguerra.

Per dare un titolo a questa brutta storia, negli anni Settanta Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Antonio Cederna parlarono di “rapallizzazione”: perché Rapallo e tutta la Liguria erano il luogo simbolo della distruzione del paesaggio e della deformazione delle città. Per sapere che quella regione non ha cambiato verso, non importa leggersi le statistiche che ci dicono che, tra il 1990 ed il 2005, in Liguria si è massacrato il territorio più che in Calabria e in Campania: basta accendere la televisione. Ma è stato tutto il Nord a pensare che lo sviluppo fosse perfettamente sinonimo di cemento. E continua a pensarlo.

Quando, nel maggio scorso, un cittadino di nome Gabriele Fedrigo ha esposto fuori dalla sua finestra due striscioni con su scritto «Basta cemento» e «Acqua e aria sane», il suo Comune lo ha diffidato, perché avrebbe attentato al decoro urbano. Il comune era Negrar, in Valpolicella: quello che ha dato origine alla parola “negrarizzazione”, che vuole dire «urbanizzazione speculativa, e al di fuori di ogni controllo» (Dizionario Treccani).

È stato l’architetto veronese Arturo Sandrini a coniare questo termine, in un articolo del 1997 in cui invitava a ribellarsi al processo che ha trasformato Negrar, la Valpolicella e tutto il Veneto «quasi in un’unica immensa area urbanizzata, dov’è difficile trovare qualche zona non interessata da quel delirium edilizio, fatto di orridi capannoni prefabbricati, naturalmente uno diverso dall’altro, di ville, villette e villone, ovviamente non quelle venete, che giacciono invece impietosamente abbandonate». Sandrini non era solo. Quando Fedrigo (che non scrive solo slogan, ma ha anche pubblicato il libro di riferimento sulla Negrarizzazione. Speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga della bellezza, 2010) è stato diffidato, la Valpolicella si è riempita di identici striscioni. Ne è comparso una perfino sulla villa Serego Alighieri: la residenza che nel 1353 fu comprato dal figlio di Dante, Pietro, e che dopo ventuno generazioni è ancora di proprietà dei discendenti diretti del poeta.

Ma se questa storia diventa esemplare, se si può parlare di una “negrarizzazione” dell’Italia intera, è proprio perché la sua morale risponde in modo concreto alle domande di queste ore: di chi è la colpa? A Negrar non c’è stato un singolo mostro, l’orco speculatore. Né c’era una povertà da cui riscattarsi di colpo. E non c’è stato nemmeno l’abusivismo: non c’è un solo edificio fuori della legge, a Negrar. La Valpolicella aveva una bellezza naturale struggente, aveva la storia, aveva un vino spettacolare: un’economia solida. Ma questo non è bastato: era troppo lento.

La speculazione edilizia è come una droga: tutto corre più veloce. E allora una comunità — senza che nessuno la costringesse — ha deciso di eleggere politici disposti a corrompere le leggi, perché le leggi corrotte permettessero di corrompere l’ambiente. Legalmente. Il motto del ventennio berlusconiano — “padroni in casa propria” — è stato applicato nel modo più radicale e devastante: fino a distruggere la casa stessa. E infatti il sinonimo perfetto di “negrarizzazione” è “irresponsabilità”: l’idea bestiale che non importa chi sarà a pagare il conto. Anche se saranno i nostri figli: anzi noi stessi, solo qualche anno — o qualche temporale — dopo. E non siamo usciti da questa storia: basta vedere quante resistenze, e quanto violente, sta incontrando l’ottimo Piano Paesaggistico della Regione Toscana, finalmente vicino all’approvazione.

Allora vorremmo che il Presidente del Consiglio pensasse al futuro, e non al passato. Che invece di sostituirsi ai giornali e agli storici nella ricerca delle responsabilità, egli si chiedesse cosa può e deve fare il suo governo. Che invece di pensare alle leggi regionali, pensasse a quelle che sta firmando lui.

Vezio De Lucia ha spiegato (Nella Città dolente, 2013) che la storia del cemento cominciò davvero quando la Democrazia Cristiana rinnegò Fiorentino Sullo e la sua ottima legge urbanistica, che ci avrebbe lasciato un’Italia diversa. Era il 1963: cinquant’anni dopo il governo di Matteo Renzi fa lo stesso errore, approvando lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi, che è una legge fatta per portare a compimento la “negrarizzazione” dell’Italia. Una legge che bisognerebbe avere il coraggio di ripensare radicalmente anche se è appena uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Anzi, una legge che bisognerebbe avere il coraggio di rottamare.

La grandissima opera, quella di mettere in salvo il nostro patrimonio, il paesaggio, il territorio. La grandissima opera, più importante di tutte le altre. Fin da questa legge di stabilità, fin da ora, senza altri errori, come quelli – recentissimi – contenuti nello Sblocca Italia.

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