Anche se molti, ultimamente, li confondono. E lo fanno apposta.

Come sapete, ieri, in direzione nazionale, abbiamo iniziato – giusto iniziato – il dibattito sul partito. Un dibattito che avremmo dovuto avviare da tempo e sul quale avevo più volte richiamato l’attenzione, fin dalla prima direzione dell’era Renzi.

La tanto spesso ricordata crisi istituzionale, infatti, è, in realtà, soprattutto crisi dei partiti, che non sanno più rappresentare le esigenze dei cittadini, non costituiscono più da tempo lo strumento attraverso il quale tutti possono concorrere alla determinazione della politica nazionale secondo quanto prevede l’articolo 49 della Costituzione.

Per questo è necessario intervenire sui partiti. Per prima cosa attraverso una legge che finalmente regoli il diritto dei cittadini di associarsi in partiti politici, offrendo loro garanzie di reale partecipazione. E per questo, partendo dal testo di Salvi e Villone, mi accingo a presentare una mia proposta alla Camera. Spero si apra poi quella discussione che su questo punto non si è mai aperta, neppure quando, all’inizio di questa legislatura, anche Finocchiaro e Zanda presentarono un loro disegno di legge in Senato.

In secondo luogo è opportuno intervenire sul nostro partito, il Partito democratico, quello nato per unificare la sinistra (che, invece, molte volte – con singolare eterogenesi dei fini – ha fortemente contribuito a dividere) e rappresentare un’alternativa di governo alla destra, non certo per governo con la destra, assumendo le larghe intese fino alle estreme conseguenze di trasformare se stesso. Anche anticipando le linee lungo le quali mi piacerebbe che si sviluppasse la legge, vorrei che il nostro partito si aprisse – anche fisicamente – di più agli iscritti, i militanti, i simpatizzanti. Che vi fossero sedi e occasioni in cui tutti possono partecipare a una discussione reale, che mettessimo in campo gli strumenti per coinvolgere tutti nelle grandi decisioni, come ho proposto anche ieri, chiedendo un referendum sui temi del lavoro. Che anche gli organismi dirigenti fossero meno verticistici, maggiormente in grado di garantire le minoranze e così più adatti a una discussione reale e proficua, le cui deliberazioni risulterebbero poi meglio accettabili da tutti. Se si cambia il programma rispetto a quello presentato alle elezioni, per esempio, mi piacerebbe che iscritti ed elettori fossero coinvolti (e non è successo con le larghe intese, né con il progetto sul lavoro). Per questo ho proposto un referendum su contratto unico (unico), decreto Poletti e articolo 18.

Certamente la mia idea è quella di un partito a vocazione maggioritaria, che è l’esatto opposto del partito della nazione e su questo equivoco è il caso di ritornare. Il partito a vocazione maggioritaria tende – appunto – a raccogliere tutta una parte dello schieramento politico per confrontarsi sui diversi temi con l’altra parte, contendendosi il governo. Risponde, insomma, a quel confronto tra destra e sinistra al quale – seguendo Bobbio e una mia profondissima convinzione – non intendo rinunciare. Era, in fondo, l’idea con cui con Prodi fondammo l’Ulivo, il padre del Partito democratico, per unire la sinistra, in tutte le sue rappresentazioni, come fanno i grandi partiti del socialismo europeo.

Viceversa il Partito della nazione è un partito che vuole mettere dentro tutto e il contrario di tutto e che non vedo con chi dovrebbe confrontarsi (con quello antinazione?) per contendersi il governo. Si pone nella triste linea dell’assenza di alternative: un soggetto unico, che impedisce ai cittadini di poter scegliere davvero. Dal PdR al PUR, insomma, al partito unico renziano (o partito nazionale renziano), che supera ogni dialettica parlamentare e politica, a meno che non gli si contrappongano forze dichiaratamente antisistema.

Ciò non dipende da Renzi, ma in qualche modo è uno schema che precede Renzi, quello delle larghe intese, che inizialmente Renzi avversava, ma poi ne ha colto – con sapienza, che però non mi appartiene – tutti i vantaggi: uno schema largo di governo che si allarga ulteriormente a Berlusconi sulle riforme (Berlusconi che, dice Renzi, non è più un nemico), in cui si governa tutti insieme, senza programma e senza impegni definiti in partenza, ma di volta in volta si sceglie ciò che si preferisce, lasciando sullo sfondo un programma di riforme da attuare (poi se non si attuano, non fa niente).

Per completare il ‘delitto perfetto’ ci vuole qualcuno che da fuori paradossalmente garantisca, nonostante i toni da veemente opposizione: meglio se è una forza che rifiuta le alleanze, che vuole governare sì, ma da sola, con la conseguenza di consolidare il PUR e le larghe intese, invitandoli a serrarsi ancora di più, a stringersi intorno al leader. Così il cerchio – perché di cerchio si tratta – si chiude. E se un tempo i cambi di casacca erano vissuti con fastidio (Scilipoti ormai è un esempio di virtù, così come lo sono i ribaltoni tanto stigmatizzati in passato), ora sono apprezzati come elementi di scaltrezza politica: ed è tutto un andare e venire di intere forze politiche, piccoli gruppi, scissioni, per molti inevitabili, per altri cercate anche più di una volta.

Insomma, per concludere: come potete capire, sono decisamente contrario al partito della nazione e decisamente favorevole a un partito a vocazione maggioritaria. E quindi di un sistema maggioritario, per contendersi la vittoria (invece di ottenerla per legge con un premio di maggioranza a chi, in realtà, è rimasto in minoranza). Non sono la stessa cosa: una riproposizione del Porcellum e il “partito della nazione” sono proprio molto diversi da un sistema maggioritario e da un partito dell’alternanza e dell’alternativa di governo.

Speriamo che se ne accorgano anche altri, prima che sia troppo tardi.

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