Contro la povertà, per ridurre le disuguaglianze. Il testo non è mio, è de LaVoce.info, ma mi ci ritrovo perfettamente. Anche nello slogan:

Buona parte della spesa andrà dunque a famiglie non povere. Non ci sarebbe nulla di male in sé, anzi è giusto in generale pensare a misure universalistiche che riflettano l’idea che i bambini sono un patrimonio collettivo, un investimento di cui tutti beneficeranno e che la società intera ha interesse a sostenere. Ma un trasferimento del genere può essere inserito solo all’interno di un sistema di welfare che ha già completato i propri tasselli essenziali. Quello italiano ha un buco grande come una casa: manca un trasferimento monetario contro la povertà, previsto invece in tutti gli altri paesi europei. Oggi di questo “reddito minimo” (condizionato a un basso reddito e all’adesione a un percorso di reinserimento sociale e, se possibile, lavorativo) c’è ancora più urgente bisogno, perché la crisi economica ha aumentato il numero di famiglie in povertà assoluta tra il 2007 ed il 2013 da meno di un milione a più di due milioni.

La povertà assoluta è cresciuta soprattutto per i nuclei con almeno un minore: dal 3,9 per cento del 2007 al 12,2 per cento del 2013. Su 6 milioni di persone in povertà assoluta nel 2013, 1,4 milioni sono bambini e ragazzi con meno di 18 anni. Un paese civile non può permettersi un tale spreco di capitale umano, che avrà conseguenze molto gravi sul suo futuro, non solo economico.

Recentemente sono state avanzate dettagliate proposte di uno schema di reddito minimo, e il Governo precedente aveva predisposto la sperimentazione nelle maggiori città italiane di un “Sostegno per l’inclusione attiva” (Sia). Ma la Legge di stabilità 2015 sembra averlo dimenticato. Eppure con 500 milioni si potrebbe iniziare a metterlo a regime. Il costo del bonus alle neomamme a regime – 1,5 miliardi o poco meno – rischia di spiazzare il Sia. Inoltre aggiungeremmo un altro trasferimento ai tanti che già ci sono, nessuno risolutivo e ciascuno con le proprie regole e non coordinato con gli altri: assegno al nucleo familiare, assegno per le famiglie con almeno tre minori, assegno di maternità, carta acquisti, pensioni di invalidità, e così via.
Si può ribattere che tutti i grandi paesi europei hanno trasferimenti monetari fissi per ciascun bambino, anche maggiori di 80 euro al mese. È vero, ma questi paesi hanno già il reddito minimo: in Francia, ad esempio, il reddito di solidarietà attiva costa ogni anno 10 miliardi. È sbagliato vedere come alternativi il trasferimento uguale per tutti i bambini (o quasi) e quello riservato ai bambini poveri, ma se proprio bisogna scegliere a causa delle risorse limitate, meglio partire dai bisogni più gravi e urgenti. Mille euro all’anno sono di solito insufficienti per sollevare una famiglia dalla povertà, ma lasciano indifferenti altre famiglie, che potrebbero semplicemente usare il trasferimento per risparmiare un po’ di più. Si è detto che il bonus aiuterà anche a pagare il costo del nido, però solo una parte dei minori di tre anni lo frequenta. Se vogliamo raggiungere gli standard europei in termini di tasso di iscrizione ai nidi (un terzo), e se riteniamo davvero che frequentare il nido sia importante per lo sviluppo del bambino, si potrebbe fare un’altra scelta: azzerare le rette di iscrizione trasferendo ai comuni le risorse necessarie. Oggi frequentano nidi pubblici circa 200mila bambini, per un costo annuo a carico delle famiglie di circa 300 milioni di euro. La somma di 1,5 miliardi a regime è più che sufficiente per portare a zero le rette per le famiglie anche se la frequenza aumenterà di molto.

“Un primo sussidio universale contro la povertà”, o “rette zero per i nidi dal 2015”: anche questi sono slogan come quello del “bonus di 80 euro al mese per tre anni per tutti i neonati”, ma sono più adatti al livello di sviluppo del nostro welfare state.

Ecco, fosse stato per me, la legge di stabilità sarebbe così. Egualitaria, progressiva, contro la povertà, contro le disuguaglianze. E, quindi, per me, innovativa.

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