Pare che ci sia l'ingorgo in Parlamento: troppi decreti, come ha ammesso lo stesso premier in streaming, i continui rinvii e le votazioni a vuoto su Csm e Corte costituzionale, il Senato con il muro contro muro voluto esplicitamente dal governo (chi semina vento, di solito, raccoglie emendamenti): insomma, una bella confusione. E meno male che ci sono due Camere, verrebbe da dire paradossalmente, perché almeno si dividono i decreti, poi tanto si mette la fiducia.

Ho chiesto ad Andrea Pertici di chiarire alcuni passaggi fondamentali, anche per sottrarsi alla canea – parecchio interessata – di questi giorni.

Ricordo che i senatori del Pd che hanno in mente soluzioni alternative per il Senato hanno presentato pochi emendamenti (meno dell’1% del totale), molto precisi e puntuali, su punti presentati più volte in questi mesi. E a chi si scandalizza per l’ostruzionismo delle opposizioni, notando che gli emendamenti ostruzionistici sono inverosimili, faccio notare che gli emendamenti ostruzionistici sono ostruzionistici (lo so, è dura da accettare). Poi uno li può valutare come vuole, ma il senso di un emendamento ostruzionistico è quello di far passare gli emendamenti seri, per correggere una riforma che può anche non piacere (siamo in un regime democratico).

Proprio per tutti questi motivi, e per riportare la discussione sulla possibilità che la riforma sia migliore di quella che è stata depositata (ora sembrano ammetterlo anche i relatori, che intendono correggere i capitoli dedicati ai referendum e all’immunità), pochi giorni fa invitavamo a portare avanti le riforme senza più strappi e forzature, con metodo costituzionale.

Pertici, dunque, mi scrive:

La conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari del Senato ha scelto, a maggioranza, di contingentare la discussione, impedendo quindi che questa potesse svilupparsi in modo completo, dando voce a tutte le posizioni. La maggioranza legava questa scelta alla necessità di opporsi all’ostruzionismo per assicurare una “vera discussione” e cercava di “compensarla” sostenendo – addirittura per bocca della Ministra Boschi – il ricorso comunque al voto dei cittadini in un referendum.

Il contingentamento, al Senato formalmente possibile ai sensi del regolamento anche sui disegni di legge costituzionali (a differenza di quanto avviene alla Camera, dove è escluso), non sembra comunque si adatti a decisioni così delicate, che, secondo quanto stabilito dalla stessa Costituzione, devono vedere il confronto più ampio possibile (art. 72) e essere meditate attraverso la lentezza di quattro letture separate da significativi intervalli temporali (art. 138). A che serve poi questo contingentamento? Soprattutto se la legislatura dura fino al 2018, come ci hanno detto e ridetto, non sarà un mese di discussione in più nella prima lettura al Senato a fare la differenza. Per di più le conclusioni affrettate finiscono per rallentare: se si fosse stati un po’ di più in commissione (dove, al netto della sospensione per la campagna elettorale per le europee, la vera discussione è durata meno di un mese), si sarebbe andati più rapidamente in aula, così come un più ampio confronto ora in Senato renderebbe probabilmente poi più veloce il lavoro della Camera. Invece, no: si continua a accelerare per poi dover aspettare di più nei successivi passaggi (tornando e ritornando sul testo). Proprio come è avvenuto con la legge elettorale, approvata in fretta e furia con sedute serali alla Camera e ora depositata da mesi e mesi in un cassetto del Senato, in attesa di trovare (al chiuso di qualche stanza che non sia – ci mancherebbe – un’aula parlamentare un nuovo accorso, perché quello vecchio già non regge più) .

L’accusa di ostruzionismo alle opposizioni, poi, è quantomeno approssimativa (anche quella) e a tratti incredibile. A parte il fatto che gli emendamenti evidentemente pretestuosi sono davvero pochi, si trascura che l’opposizione non ha il compito di aiutare la maggioranza ad assumere le proprie decisioni. Se la maggioranza è davvero tale, questo non è un  problema (anzi, di solito l’ordinamento si preoccupa di garantire all’opposizione l’adeguato spazio, perché essa possa comunque partecipare all’assunzione della decisione). Ma nel caso di specie, il problema – e non da ora – sembra proprio questo: che il Governo abbia voluto imporre a calci e spintoni una riforma che non godeva del consenso neppure della propria maggioranza: ricordiamo, oltre alla linea alternativa del PD, che abbiamo promosso e sostenuto e che ha dato luogo alla proposta Chiti, le dichiarazioni molto critiche del ministro Giannini giusto alla vigilia dell’adozione del testo in Consiglio dei ministri, l’opposizione di “Per l’Italia” con Mario Mauro (e quindi la rimozione di quest’ultimo e poi di Mineo e Chiti dalla commissione affari costituzionali), e ancora, i dubbi che dall’inizio mostra l’opposizione richiamata in maggioranza (almeno) per e riforme, cioè Forza Italia (della quale la Ministra Boschi diceva inizialmente di poter fare a meno, salvo essere presto smentita dai numeri). Se questa maggioranza delle riforme scricchiolava parecchio sin dall’inizio e tutte le altre forze politiche erano comunque contrarie, non sarebbe stato più utile, più conforme al metodo costituzionale per il Governo aprire a proposte alternative? Invece no, più la maggioranza si indeboliva, più il Governo irrigidiva la sua (im)posizione… fino a lacerare ogni spazio di discussione in Commissione (dove siamo arrivati addirittura alla preventiva rimozione fisica dei senatori dissenzienti) sostenendo che sarebbe stata l’aula il momento adatto perché ciascuno esprimesse il suo dissenso, anzi, la sua posizione alternativa, e votasse eventualmente in conseguenza. Salvo poi votare per il contingentamento del dibattito, appunto.

Spostando quindi ancora in avanti la possibilità di espressione del dissenso, ora si dice: approviamo in fretta, poi ce lo diranno i cittadini, con un referendum, se la riforma va bene o no. Ma se tutta la maggioranza – con Forza Italia – votasse compatta a favore, come il Governo vuole, ci sarebbero i due terzi e – secondo quanto stabilito all’art. 138, ultimo comma, della Costituzione – non potrebbe chiedersi il referendum. Si sta quindi chiedendo da parte dello stesso Governo che si facciano mancare i due terzi? Non sarebbe davvero singolare dopo tante impuntature e minacce di fine di mondo rispetto a ogni singolo dissenso? Ma comunque il referendum – vale la pena precisarlo – non è certo a disposizione del Governo per farne un plebiscito; al contrario, è concepito come strumento delle minoranze per opporsi alla riforma. E qui sta un’ultima questione. Rinviare la possibilità di dissentire al referendum, significa rifiutare un’alternativa più costruttiva. Mentre, infatti, in Parlamento si può votare per la proposta governativa o per altre, nel referendum si può scegliere soltanto tra la riforma approvata (che sarebbe presumibilmente quella del Governo) o niente, privando così i cittadini della possibilità di una riforma alternativa.

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