In ordine di tempo, ma non l’ultimo in assoluto. Anche perché di altri argomenti, con le larghe intese, non si parla proprio.

Il partito che presidia le politiche della destra nel governo Renzi era stato un po’ in ombra negli ultimi tempi, oscurato dall’attivismo presidenziale.

Ha però avuto un sussulto e ritrovato una causa su cui issare le sue bandiere quando si è trattato di legiferare in materia di lavoro.

Ha apposto il suo marchio sul decreto firmato da Poletti, quello inconfondibile delle politiche dei governi Berlusconi. Secondo Renzi, per creare posti di lavoro non servono nuove regole ma domanda di mercato e voglia di investire? Il decreto interviene sulle regole, per cambiare in peggio quelle della Fornero che si era permessa (è tutto dire) di correggere qualche squilibrio troppo vistoso a danno dei lavoratori. Secondo lo stesso Poletti, che pure si è speso in difese imbarazzanti del decreto, per combattere la precarietà si dovrebbe creare un sistema di convenienze a favore del lavoro stabile (per farlo costare almeno il 10% in meno di quello a termine)? Il decreto offre agli imprenditori la possibilità di sostituire, praticamente senza vincoli né limitazioni, il contratto a termine al posto di quello a tempo indeterminato. E non solo: suggerisce anche come pagarlo (molto) meno permettendo di farlo passare per un contratto di apprendistato. La formazione, l’investimento sulle competenze e sulle conoscenze, che dovrebbero essere la chiave per recuperare competitività nell’era della globalizzazione, vengono derubricati a orpelli fastidiosi, “lacci e lacciuoli”.

Con ammirevole abnegazione i deputati Pd della Commissione Lavoro (quasi tutti bersaniani, molti con un passato in Cgil) si sono impegnati per limare le esagerazioni insostenibili, in una logica di riduzione del danno che neanche modificava di molto la sostanza. Comunque troppo, per la sensibilità della destra che si autodefinisce moderata, subito insorta minacciando voto contrario e costringendo il governo alla fiducia con la richiesta di azzerare il risultato della Commissione scomunicando i deputati “sottomessi alla Camusso”.

La domanda è: quanto ancora può reggere questo Paese sotto i colpi di un fanatismo ideologico che ha prodotto danni gravi negli anni di governo della destra? Quali prezzi potrà permettersi di pagare alla “ragion politica” di un governo di larghe intese?

Perché, ideologia a parte, il bilancio di quegli anni è spaventoso. Quando il mercato mondiale tirava, nel decennio scorso, l’occupazione è cresciuta allo stesso ritmo degli anni precedenti (di centro-sinistra) sostituendo però una quota di occupazione stabile con occupazione precaria, con il risultato di una crescita del PIL molto al di sotto della media mondiale. Dopo la breve parentesi del Prodi2, che non è bastata per invertire la tendenza, con lo scoppio della crisi l’occupazione ha preso a calare nel complesso e si è ridotta ancor più la quota di lavoro stabile e di qualità, con una parallela contrazione, drammatica, del reddito nazionale.

È di questi risultati che il centro destra osa vantarsi. E’ questa la politica con cui intende continuare a far danni in un paese allo stremo. Non si può chiedere di ritardare ancora un cambio di rotta indispensabile. Non lo si può chiedere a parlamentari eletti in un partito che ha posto il lavoro e la sua qualità al centro del suo programma.

Non ci sono alchimie né ragioni superiori che possano giustificare un simile tradimento del volere degli elettori.

A meno che ovviamente a questo schema aderisca – come è sembrato di capire – anche il premier. Perché il decreto Poletti è, eccezion fatta per la pessima legge elettorale che purtroppo solo pochi di noi non hanno votato, la prima iniziativa concreta del suo governo. C’è proprio da andarne fieri.

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