Leggo sui giornali che dalla proposta di Renzi presentata in direzione, che avevo affrontato con qualche cautela (e, come sempre, con la presentazione di un documento), sono spariti parecchi sindaci (erano 108) e i senatori-a-vita-temporanei e sono aumentati i rappresentanti delle Regioni.

Nel frattempo, con il contributo di alcuni senatori, a cominciare da Walter Tocci, abbiamo predisposto un progetto di riforma costituzionale che presenterò oggi alla Camera e che porterò all'attenzione del gruppo del Pd e delle altre forze politiche.

Qui di seguito, con il contributo del professor Pertici, il nostro punto di vista.

La riforma del Senato: una camera alta di garanzia e coesione territoriale

di Giuseppe Civati e Andrea Pertici

Seguiamo l'ipotesi di riforma del Senato da diversi mesi. Da quando se ne è iniziato a parlare nell’ambito delle grandi riforme in deroga all’articolo 138 della Costituzione (quelle delle larghe intese del Governo Letta-fase uno), poi abbandonate, con il formarsi delle più ristrette intese, nell’ottica di una riforma costituzionale anch’essa – ça va sans dire – più ristretta. E le continuiamo ancora a seguire da quando sono state poste al centro dell’attenzione – con uno schema ancora ri-allargato (sempre nell’ambito del centrodestra) – dalla nuova segreteria del Pd e poi dal nuovo Governo.

Abbiamo assistito a molte ipotesi – anche nell’ambito della Commissione dei “saggi” – che oscillano tra varie connotazioni di una Camera delle autonomie e/o dei territori e una Camera “alta”, delle garanzie. Purtroppo, alcune proposte più recenti – a partire da quella confezionata dal Governo – non rispondono a nessuna di queste due idee. E talvolta a nessuna idea.

Come avevamo già detto, infatti, nel riformare il bicameralismo è necessario anzitutto chiarire gli obiettivi che si intendono perseguire (e da questo punto di vista avevamo presentato in gennaio, alla direzione nazionale del PD, un documento in cui si fissavano alcune linee lungo le quali procedere).

Tra questi obiettivi certamente vi è la necessità di una più efficace attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza attraverso Governi stabili ed efficienti. Così risulta coerente mantenere il legame fiduciario con la sola Camera dei deputati, come normalmente avviene nelle democrazie parlamentari europee, e affidare la normale attività legislativa – che dell’indirizzo politico rappresenta lo svolgimento – alla sola Camera dei deputati. Rispetto alla normale funzione legislativa, il Senato, come avviene in molte esperienze straniere, potrebbe svolgere il ruolo di una Camera di riflessione, con la possibilità di “richiamare” le proposte approvate dai deputati che manterrebbero comunque la parola definitiva.

Soltanto per le leggi costituzionali e per alcune leggi di particolare rilievo dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali e dell’organizzazione dello Stato sembrerebbe opportuno, se non necessario, mantenere un procedimento bicamerale (anche considerato che si tratta di questioni non strettamente connesse all’indirizzo politico del Governo).

Il Senato, invece, dovrebbe recuperare nuovo spazio nell’esercizio di alcune funzioni di controllo come quella d’inchiesta o di parere e assenso sulle nomine del Governo, secondo quanto già positivamente sperimentato in altri ordinamenti.

Un ulteriore obiettivo dovrebbe essere quello di realizzare, attraverso il Parlamento, un migliore coordinamento dei livelli territoriali, in particolare a livello legislativo (completando quanto già in parte avviene con il sistema delle conferenze a livello esecutivo). In questo senso, quindi, riteniamo che il Senato, consolidando il suo legame con i territori e le istituzioni regionali, potrebbe divenire una sede di coesione territoriale, partecipando, con potere decisionale, al procedimento legislativo nelle materie di legislazione concorrente (da ridurre e coordinare con il principio dell’unità giuridica ed economica della Repubblica) e in relazione alle leggi che incidono sulle autonomie territoriali.

Le finalità della riforma e le conseguenti importanti funzioni attribuite, e, in particolare,  quella legislativa (nei termini precisati) fanno ritenere – come ha dichiarato anche ieri Lorenza Carlassare in un’intervista a Il Manifesto – che il Senato debba essere eletto (almeno in larghissima misura) a suffragio universale diretto. L'elezione popolare è infatti certamente quella che meglio realizza il principio democratico rappresentativo e in proposito non può, in effetti, che guardarsi con preoccupazione ai diversi tentativi di limitare la possibilità per i cittadini di esprimere le loro scelte attraverso il voto, proprio mentre sarebbe necessario recuperare una maggiore partecipazione.

Si pensi a quanto sta accadendo con la legge elettorale approvata dalla Camera dei deputati, che sacrifica il voto popolare con alte soglie di sbarramento, ampi premi di maggioranza, liste bloccate e mancanza di elezioni primarie. Si pensi ancora al caso delle Province, non soppresse, ma private degli organi rappresentativi. E su questa linea paiono porsi, appunto, alcuni disegni riformatori (per così dire) del Senato, che vorrebbero farne un organo in cui si unisce ad una rappresentanza di secondo livello di amministratori locali, selezionati con criteri inadeguati, un numero percentualmente assai significativo di personalità mai elette da nessuno ma nominate temporaneamente dal Presidente della Repubblica.

A fronte di tutto questo ci sembra necessario ribadire l’opzione a favore della elezione a suffragio universale diretto, magari anche maggiormente ancorata al territorio regionale, valorizzando l’elezione a base regionale già prevista in Costituzione e rendendo maggiormente omogeneo il numero di eletti per Regione, con accentuazione così di un’impostazione che già il Costituente aveva ripreso, in qualche misura, dall’esperienza nordamericana. Ciò non esclude, comunque, che per una parte minoritaria del Senato potrebbe pensarsi ad una rappresentanza di secondo livello capace di immettere nell’assemblea anche la voce delle istituzioni regionali.

Una proposta siffatta potrebbe – ed anzi dovrebbe – rispondere anche alle più generali esigenze di alleggerimento delle Camere, con una riduzione (pari ad almeno un quarto) dei suoi componenti, che, accompagnata da una significativa diminuzione delle indennità, determinerebbe un dimezzamento dei loro costi (che pure non possono costituire l’elemento guida delle riforme istituzionali, la spending review passando più appropriatamente attraverso i tagli dei numerosi sprechi e inefficienze che il commissario straordinario Cottarelli sta precisamente indicando e che ci si augura possano avere adeguato seguito).

Naturalmente, queste considerazioni – che troveranno riscontro anche in una proposta di legge costituzionale – mirano anzitutto a stimolare una discussione che deve però necessariamente prendere avvio dagli obiettivi che si intendono perseguire e non, invece, da pasticciate alchimie sulla composizione di una seconda Camera di cui ci si preoccupa più che altro di dire cosa non dovrebbe fare, rendendola così una Camera secondaria. 

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