Mi scrive Hamilton Santià, che è uno bravo, un pezzo che sottopongo alla vostra riflessione, insieme ai miei auguri affettuosi e partecipi a Pier Luigi Bersani. A cui voglio bene.

Quanto successo ieri sulle pagine internet di alcuni quotidiani a diffusione nazionale come il Fatto o Repubblica, in relazione alle notizia sul malore di Pier Luigi Bersani, ha dell'incredibile.

La violenza con cui moltissimi utenti si sono riversati sui social network ha una matrice che non è solo il puro trolling, fenomeno oggettivamente fastidioso ma relativo alla galassia internet e basta, ma sfocia nell'intolleranza. Ci siamo chiesti spesso di internet sia o non sia lo specchio del paese. Per numeri di utenti, per diffusione della rete, per utilizzo dei social network, penseremmo di no. Lo sappiamo benissimo che l'Italia su questo tema è decisamente arretrata. Però non possiamo liquidare tutto come se si stesse sempre parlando di un oscuro 1% che va lasciato alla sua libertà e che prima o poi si autoregolamenta. Quello che scriveva Paolo Di Paolo su l'Unità qualche giorno fa è ancora più agghiacciante: gente che su internet augura la morte a un signore di 62 anni per la sola colpa di essere un politico che poi, magari, spento il computer, diventa un padre amorevole e affettuoso.

Questo scollamento è inquietante. Inquietante perché rischia di non essere più solo uno scollamento. Inquietante perché un mese fa Torino, la città in cui vivo, è stata bloccata per qualche giorno da un movimento autogestito – i famosi forconi che fra poco minacciano di ritornare – la cui matrice d'intolleranza ha travalicato i confini dello spazio digitale e ha invaso le strade (a questo proposito si è espresso anche Marco Revelli sul Manifesto). Insomma, non possiamo più essere indifferenti alla questione e pensare che i commenti su internet siano uno sfogatoio che fa sì che la gente non si comporti in maniera violenta nella vita di tutti i giorni. Ormai questa differenza, questo confine, sembra non esistere più. E anche se tra queste persone che ieri hanno augurato la morte a Pier Luigi Bersani ci sono molti che di persona mai lo farebbero, ormai non possiamo più pensare a queste dinamiche come fatti isolati.

Fabio Chiusi di Wired stamattina ha scritto su Facebook che censurare e moderare con mano pesante non snatura la faccenda, ed è anche ipocrita: i cretini ci sono sempre stati e che lasciando fare hai il pregio di dare a questi cretini un nome e un volto (e di contro, il buonismo a tutti i costi rappresenta un'altra ipocrisia). Non ha tutti i torti. La censura non ha mai ragione, e la “moderazione” può essere letta come tale solo se inserita in un processo di portata più ampia. Ma ha anche ragione Massimo Mantellini sul Post, quando scrive che quanto successo ieri è indice di un più diffuso disagio sociale e segno di un disgregamento del paese e, soprattutto, della ridefinizione di un nuovo linguaggio per esprimere il malcontento. Un linguaggio nuovo, più violento e sgraziato, che se fossimo snob liquideremmo alla Nanni Moretti (“chi parla male pensa male e vive male”), ma che invece abbiamo il dovere di analizzare. Perché questa esplosione di intolleranza, questa incapacità di riconoscere l'altro, i suoi confini, la sua dignità, sono un pericolosissimo segno di una società e di una comunità che non riesce più a riconoscersi. Non è una “rete”, ma una serie di molecole impazzite che collidono tra di loro e innescano un processo fondamentalmente distruttivo.

Lo ammetto, ho sempre creduto all'utopia della rete come luogo della costruzione di una nuova cittadinanza consapevole, di una nuova diffusione della conoscenza. Per questo mi sento a disagio quando vedo che ad oggi internet è solo un enorme bar in cui ognuno dice la sua e lo dice in maniera più violenta perché non esistono più quei confini del corpo. Le parole hanno delle conseguenze, su internet come nella vita vera. E le parole di odio che ieri sono state scritte contro una persona che è stata male (così come qualche giorno fa è successo per Caterina Simonsen e la sperimentazione animale) dimostrano che l'utopia digitale è ancora attualissima, che l'agenda digitale è una priorità non solo come opportunità di crescita economica ma soprattutto come crescita culturale, e che bisogna adoperare una vera e propria “ecologia”. Non una censura. “Ecologia” del linguaggio. “Ecologia” della mente.

Governare il flusso è sbagliato, a pensarci. Ed è anche impossibile. E su questo ha ragione Chiusi, purtroppo. Però la responsabilità delle parole deve essere assoluta. Non so se i giornali che loro malgrado hanno ospitato questi sfoghi in cui la violenza verbale è diventata quasi fisica siano i soggetti deputati a innescare questo processo di “ecologia” (che è diverso da moderazione, perché presuppone un lungo cammino, e non una cesoia brutale), non so se sia qualcosa di ancora più lungo che va iniziato in altri luoghi istituzionali per poi avere piena manifestazione nel linguaggio parlato in luoghi che non saranno “materiali”, ma sono centrali nella nostra vita contemporanea. So solo che quanto successo negli scorsi giorni – ripeto, non è solo Bersani, ultimo in ordine di tempo – merita una riflessione. Il dibattito è estremizzato. Non esiste più riflessione critica, non esiste più il ragionamento sulle sfumature. Esiste solo un io contro di te (che diventa un “noi” gente contro un oscuro “loro” responsabile di tutto) che alla fine distrugge tutto e non sostituisce con niente.

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