Paolo Di Paolo, ieri, su l’Unità, per oggi e per i giorni a venire.

L’altra faccia del disincanto e della frustrazione è la rabbia. Non quella che spinge a un riscatto, che fa correre a denti stretti verso un obiettivo, che precede un cambiamento. È un’altra rabbia: un’aggressività cieca che trascina tutto, cerca un bersaglio, si sfoga. Ma il bersaglio è soltanto un pretesto, perché quella rabbia viene da lontano.

È sempre eccessiva, sproporzionata: come si vede in certe liti tra automobilisti, o in fila alla banca. Ha in sé lampi di violenza. La più futile delle questioni – l’auto del dirimpettaio parcheggiata male, i rumori dalla casa accanto – la accende, la fa esplodere con furia perfino omicida, come nel lodigiano qualche giorno fa e come sempre più spesso, in un condominio qualunque, in un bar, per la strada.

È sempre stato così? La convivenza umana è fatta anche di questo? Forse sì, risponderebbero Poe, Dostoevskij o Camus. Ma la rabbia e l’intolleranza dei singoli passano oggi anche per uno spazio diverso: infinitamente vasto; potente come un contagio. Dietro una maschera, un nome fittizio, l’uomo della folla cerca il suo bersaglio e spara a zero. Lancia il sasso, nasconde la mano; segue una pioggia di sassi in cui ogni mano è nascosta. Così è molto facile, in nome di un ideale il più delle volte falso, millantato, arrogante, augurare la morte a una ragazza di venticinque anni malata che lotta per la vita. Caterina Simonsen aveva difeso le sperimentazioni scientifiche sugli animali. Al di là di ogni legittimo dibattito e distinguo sul tema specifico, ciò che sconvolge è l’onda di cattiveria gratuita, di insulti, di volgarità scaricate in rete contro di lei. Chi sono questi «animalisti»? Come si fa a proclamarsi difensori degli animali e allo stesso tempo augurare la morte a una ragazza malata? Questi finti animalisti – ha detto in un’intervista Caterina – non sono persone razionali, non sono capaci di empatia, di mettersi nei panni dell’altro, «ma se non ci arrivano, abbiamo un serio problema, forse hanno bisogno di psicologi».

Abbiamo un serio problema, sì. Abbiamo il serio problema di un numero sempre più vasto di persone che non misurano più il peso delle parole. Le dicono, le urlano, come forse non avrebbero il coraggio di fare per la strada, o faccia a faccia. Persone – pesco dal solito blog di Grillo – che, rivolte genericamente ai politici, scrivono «perché non li abbiamo ancora bruciati col lanciafiamme?» o, rivolti al presidente della Repubblica, «vada a farsi inc.» (testuale, firmato tale «Zio Max»). Sì, caro Grillo, «siamo circondati»: da questa miseria, da queste parole inquinate, da questa frustrazione personale che cerca di nobilitarsi attraverso finte buone cause o slanci pseudo-civili. L’Italia del 2014, a giudicare da certi forum e blog, risulta non solo piena di sfiducia e pessimismo, ma anche incapace di trattenere il proprio peggio.

Minoranze, si dirà. È bene sperarlo, ma come la mettiamo con la politica o anti-politica che su quel peggio si basa? Apro il profilo Facebook del leader leghista Matteo Salvini. A proposito della situazione in Congo, lui scrive: il ministro Kyenge «sarebbe più utile in Congo. O forse neppure là». Seguono quasi quattrocento commenti. Fra i primi: «La Kyenge mangia banane, che vada a farsi fottere da un orango».

Queste persone le abbiamo accanto.

Le incontriamo per strada, sugli autobus, ci sorridono, o forse no, fanno il proprio lavoro, magari bene; può darsi che siano ottimi genitori, disposti a farsi in quattro per i figli. Poi però, con una disinvoltura pari all’irresponsabilità, digitano insulti, parole grevi, offensive, parole che ai propri amici e genitori non direbbero.

Senza considerare per un istante che le parole hanno un peso, le circondano di facine sorridenti, di «ah ah ah». Alberto ha come foto di profilo il Pinocchio Disney e riesce a dire, del ministro Kyenge, «è una bastarda di donna»; un altro ha come foto di profilo un albero di Natale e invoca la pena di morte per gli immigrati che delinquono, «devono ciondolare con una corda al collo».

Alberto, festeggiando il nuovo anno, non avrà probabilmente nessun rimorso. E così nemmeno chi ha augurato la morte a Caterina. Dopo anni spesi a preoccuparci degli eccessi di «buonismo», abbiamo lasciato crescere il «cattivismo», l’abbiamo elogiato, premiato, considerato vincente. Per paura della retorica positiva, abbiamo abbondato in retorica negativa. Il risultato è questo: questa penosa corsa a essere persone peggiori, senza più farci caso, senza più sentirsi colpevoli.

Se oggi, prima della mezzanotte, avete cinque minuti liberi, cercate in Internet il discorso tenuto dallo scrittore americano George Saunders ai laureandi della Syracuse University. È basato tutto sulla gentilezza. «Come possiamo diventare più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e così via? Già, bella domanda… Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è… Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve. […] Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita. Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi, fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla – ma qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono sminuirvi e rendervi banali».

Auguriamoci, per il 2014, di saper difendere ciò che crediamo giusto ma con le parole giuste. Con energica, luminosa gentilezza.

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