Certo, che è uno strumento, certo, che il fine ultimo è cambiare il Paese. Ma è proprio per questo che a me interessa, cambiare il Pd. Lo slogan può diventare un tormentone dell’estate democratica: no party, no party.

Nessuno nega il valore delle leadership nelle democrazie moderne (anzi, qualcuno lo fa, poi dopo però fa fatica a vincere, guarda caso), ma molti tendono a dimenticarsi che le leadership sono a tempo, hanno un inizio e una fine: concetto straordinario, per la politica italiana.

E per durare e per funzionare devono essere leadership collettive. Se posso, leadership di sinistra, come dovrebbero essere nel 2013. Inclusive e ospitali, capaci di far partecipare, di dare spazio. Non solo di fare gol, ma di costruire gioco e, fuor di metafora, cultura politica. E qualcosa in cui riconoscersi, sì, e da cui sentirsi rappresentati.

Ecco perché io voglio un partito fortissimo, apertissimo, organizzatissimo: per non finire nel governissimo, e perché deve sopravvivere non a se stesso, come fa ora, ma soprattutto al tramonto dei suoi leader (al momento sopravvivono i leader e tramontano i partiti, per dire).

E siccome non stiamo parlando di di fritture o di zuppe, trovo stupidissimo continuare a discutere di leggero e pesante, solido e liquido: stabiliamo di nominare un po’ meno organismi farlocchi, facciamone meno e convochiamoli più spesso. Smettiamo di riempire gli organigrammi per accontentare tutte le correnti e le filiere fino all’ultima frazione di montagna, prendendo poi le decisioni che contano in caminetti ristrettissimi, discutiamo di più, e all’aria aperta.

Valorizziamo il ruolo dei nostri circoli, facciamoli diventare il punto di riferimento di tutti quelli che vogliono partecipare, dialogare, ma anche fare qualcosa – di concreto – per migliorare l’Italia, la loro città, il quartiere.

Diamo ai nostri militanti gli strumenti che ora mancano: spendiamo meno in campagne con i faccioni affissi ai muri, usiamo quei soldi per dare ai circoli una connessione a internet, e mettiamo in rete le competenze, i database con i dati dei nostri elettori. Sapete, quelli che vengono a darci due euro alle primarie, e che poi non interpelliamo mai.

Facciamo incontrare gli OccupyPd con quelli che hanno iniziato con Dossetti e Berlinguer, che è molto più facile di quello che sembra, perché la passione che attraversa gli uni è la stessa che muove gli altri. Ed è una passione razionale e politicissima.

Ospitiamo il dibattito che attraversa la società civile, senza presunzione, ma con la responsabilità e l’orgoglio di trasformare quella energia in un percorso coerente di governo.

Partiamo dalla provincia più profonda, da quei paesi e paesotti, dalla Grosseto-Kansas City di Bianciardi, da quel Sud da cui tutti muovono per andare altrove, dal Nord dove i politici nonostante il loro gigantismo hanno sempre avuto meno autorevolezza dei nani da giardino.

Facciamo come i Democratici americani – ci hanno superato pure in questo, che onta per i guardiani dell’ortodossia – che bussano alle porte degli elettori non solo e non tanto il giorno precedente alle elezioni, ma soprattutto da quello dopo, e per tutta la durata della legislatura: altro che i sondaggini on line di Grillo, così sì che avremmo il polso della situazione. E faremmo partecipare, come abbiamo inutilmente chiesto in passato con le nostre consultazioni referendarie, che tutti hanno snobbato (bravi!).

Avessimo imparato a farlo anche noi, in tutti questi anni di rimandi e perdite di tempo, forse dopotutto non ci troveremmo in questa situazione.

Hai detto niente.

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