La seconda puntata del mio modestissimo commento al documento di Fabrizio Barca (la prima è qui sotto) potremmo farlo sulla mobilitazione cognitiva.

La promessa non è solo condivisibile, è addirittura rivoluzionaria, pensando a quanto è successo nella storia recente della sinistra (sinistra, quale sinistra?) italiana: Barca afferma con forza la necessità di capovolgere la piramide decisionale stimolando prima una discussione nella base, raccogliendo il sentimento e le competenze per poi procedere verso soluzioni e decisioni. E non si può non essere d’accordo. Anzi, si deve proprio tifare.

Per capirci, si può partire da come funziona ora, con le assemblee nazionali che quasi sempre vengono prima di quelle locali: e quindi al livello locale non si discute di quali istanze portare al nazionale, ma al contrario si racconta, dopo, cosa è successo, in genere con il segretario di federazione che interpreta e comunica agli iscritti la linea già decisa. E non c’è molto di cognitivo, né di mobilitante, in effetti.

Lo stesso discorso vale anche per i congressi: noi svolgiamo prima il nazionale e i regionali, e poi quelli di federazione e di circolo. Questo riflette fino all’ultimo paesino le dinamiche correntizie, nel senso che se “al nazionale” vince Bersani, poi anche al paesino si presenterà un candidato di area bersaniana, e questo non ha senso. Se ogni circolo eleggesse i propri direttivi, e poi, in seguito, si facesse il congresso nazionale, come ad esempio chiedono gli Occupy, gran parte della geografia di questo partito cambierebbe. E chi si candida al Congresso, dovrebbe dirlo subito, che non è interessato ad avere un suo emissario a San Vito dei Normanni o a Cadoneghe, ma un segretario scelto perché è capace e rappresentativo.

Venendo al tema della mobilitazione cognitiva, però, dall’impostazione del documento di Barca sembrerebbe che questa mobilitazione debba avvenire dentro il partito. Qui va fatta un’analisi su come i partiti si sono indeboliti culturalmente in questi vent’anni, e su come al contrario la società si sia arricchita di stimoli che i cittadini raccolgono personalmente, senza intermediari, attraverso l’informazione, il web, l’associazionismo, i comitati civici.

Tutto questo per dire che siamo di fronte a una società molto più dinamica che in passato, e che agisce politicamente al di fuori dei partiti e – ancora – che è molto difficile pensare che i partiti siano in grado di riportare tutto questo dentro il loro recinto.

I referendum sull’acqua sono un buon esempio, perché sono nati trasversalmente alla politica, ed è interessante notare come spesso fossero pieni di nostri militanti: bisogna chiedersi perché combattessero fuori e non dentro il Pd. E quindi lavorare per rendere il Pd un luogo più ospitale – oggi le aree culturali alla base del Pd sono state sterilizzate dal correntismo, nel senso che sono etichette che non rappresentano più aree ideali, che ormai si sono quasi completamente confuse – e accettare che in questa fase e ancora per un po’ di tempo, in futuro chissà) il partito debba avere soprattutto un ruolo di ascolto, di ospitalità nella migliore delle ipotesi, senza pretendere che la discussione – la mobilitazione cognitiva – avvenga al suo interno.

Perché questo semplicemente non accadrà, e allora il problema è essere meno sordi, meno chiusi, più attenti, pronti a fare da stimolatori e accompagnatori dei processi. Rendendosi conto che la parzialità dei partiti non è un tema accademico, ma una presa di coscienza di ciò che accade da tempo: che tutte le cose nuove e migliori arrivino alla politica senza il contributo dei partiti o loro malgrado. Pensate alle donne e al movimento Snoq (e non solo), pensate all’ambientalismo (che ha trovato ospitalità, appunto, in un’altra formazione politica, che non è la nostra), pensate alla difesa della cultura e della scienza, tema che la politica ha subito, spesso in ragione del principio di incompetenza.

Quando parlo di ospitalità, come ho fatto più volte, non la penso come soluzione acritica, anzi. L’ospitalità presuppone un luogo, uno spazio politico, in cui ci siano regole chiare (quelle della casa che ci ospita, appunto) e la massima disponibilità al confronto: per essere disponibili, perciò, si deve essere razionali. E qui il Pd può mettere in gioco tutte le proprie competenze, la sua dimensione nazionale, le sue risorse per organizzare nel modo migliore questo dibattito.

Mi viene in mente Kant e la funzione trascendentale, come ho ricordato una volta: traducendo, mi piacerebbe un partito che non si risolve nella società solamente, ma che con la società ha un rapporto costante, di più: necessario. E che non prescinde mai da chi, a proposito di mobilitazione cognitiva, si muove per conto suo, offrendo soluzioni e idee e parole al progetto di cambiamento.

Se la mobilitazione cognitiva di Barca si coniuga con questa idea dell’ospitalità, il Pd potrebbe trovare una nuova dimensione (che finora ha avuto solo in parte). E provare a conciliare le spinte della società con un discorso politico di governo. Per usare una metafora a me cara, al vento che soffia servono i mulini per trasformarsi in energia di governo. Se manca una cosa, l’altra non serve. E ciò vale per le scelte della politica, vale per la sua organizzazione.

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