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Che anno, il 2012. Se ne stanno andando tutti. Berlusconi che rinuncia, Bossi che lo ha fatto già, Formigoni che tramonta, cercando di allungare la propria ombra artificialmente sul futuro. Dalla nostra parte, le rinunce e le rottamazioni.

Chi come me è nato nel 1975 – nota oggi Riotta sulla Stampa -, non può non apprezzare quello che sta accadendo, come un momento storico. Un passaggio in tutti sensi rivoluzionario.

Non è un caso che la fine di questa lunghissima fase – una vera e propria generazione politica – coincida con la più grave tra le crisi economiche che uomo ricordi. Anzi, per la precisione, con la certezza che si tratti di una crisi strutturale, e non di un temporale di passaggio.

Non è un caso nemmeno che la fine di questa lunghissima fase coincida con la crisi della rappresentanza politica, a livello nazionale e non solo.

Non è un caso che la fine di questa lunghissima fase coincida con l’esaurimento di alcune categorie economiche e politiche che hanno regnato indiscusse negli ultimi trent’anni.

Se qualcuno pensa, quindi, che il più sia fatto, si sbaglia di grosso.

Perché qui ci sono alcune cosette da affrontare, senza avere fretta, ma senza perdere altro tempo, come voleva il grande Saramago.

C’è bisogno di un progetto politico collettivo, non solitario, perché anche la leadership, e quel modello di leadership celebrano la loro crisi, e lo dimostrano da una parte sia Monti, sia Grillo, per motivi diversi e apparentemente opposti. Essendo entrambi non-leader e perciò leader di questa fase così delicata.

C’è bisogno di un ripensamento delle categorie della politica, che non è solo lavoro di staff, ma è processo e costruzione quotidiana: è soprattutto vita di relazione e non solo perché ora c’è internet.

C’è bisogno che i simboli, gonfiati fino a scoppiare in questi anni, tornino a rappresentare fedelmente la realtà. E a indicare vie nuove, in cui il racconto sia fatto di parole alte e non corrive e non troppo ‘veloci’, perché abbiamo bisogno di ascoltarle, quelle parole, e di capirle in profondità. E abbiamo bisogno di numeri che corrispondano alle parole, perché ce ne siamo raccontate troppe e, proprio perché abbiamo perso vent’anni nel modo che sappiamo, dobbiamo ritrovare quella misura che manca.

Il compito di una generazione, nel senso politico e culturale, non è solo e soltanto quello di affermare se stessa: ma di farlo attraverso un progetto carico di senso, di impegno e di partecipazione del «maggior numero». Perché è la fiducia che dobbiamo trovare, in noi stessi, e trasferire a tutti coloro che ci vogliono credere ancora. Ed è questo il vero coraggio che serve, che è parente stretto dell’umiltà e della generosità.

Così il nostro protagonismo sarà vero. E rappresenterà qualcosa. Se ne saremo capaci, sarà una tra le avventure più belle che possiamo pensare per noi. E per chi verrà dopo di noi. E si aspetta un’eredità diversa da quella che abbiamo ricevuto.

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