London calling (segue)

L’altra sera, si parlava con Roberto Rampi di quanto accaduto a Londra, e lui mi diceva: colpiscono la velocità e il movimento, i terroristi, per colpire la qualità essenziale della società occidentale. Riflessione giusta e condivisibile, anche se non deve portare a credere che il terrorismo islamico sia di matrice tout court ‘medievale’: pur conservando un apparato ideologico antico e abominevole, infatti, la rete di Osama è il prodotto dei processi di globalizzazione esattamente come tanti altri fenomeni a cui assistiamo, nell’era del tramonto degli Stati nazionali, del mondo sempre più liquido (direbbe Bauman), dei confini sempre più labili, della ‘paura’ e dell”emergenza’ come dati essenziali, ahinoi, del nostro vivere civile. L’emergenza localista o integralista è allora anche il frutto, residuale, di questi processi di più vasta portata. E le modalità con cui la violenza si esprime, in un tentativo di guerriglia diffusa e imprevedibile, è la riprova delle tante, troppe asimmetrie che caratterizzano la politica internazionale. Perciò, se il terrorismo colpisce il movimento, lo fa, da una parte, perché sa che è così importante per noi e, dall’altra, perché se ne serve (come nel caso dei boeing del 9/11).
Interessante la riflessione sul movimento, quindi. Io però credo che il punto essenziale di questa come di tutte le azioni terroristiche sia la casualità e l’indistinzione. Sia cioè il fatto che colpendo una metropolitana, si colpiscano tanti cittadini che su quella metropolitana stanno viaggiando, ma anche coloro che di lì sono (in alcuni casi, appena) passati e avrebbero potuto farlo. E si parla di milioni di persone. Nei racconti dei sopravvissuti, è soprattutto questo il dato: «avrei potuto esserci io a Russel Square», «ero passato cinque minuti prima da Liverpool Station», «tutte le mattine salgo sul treno che mi porta alla stazione di Atocha». E anche l’indistinzione degli obiettivi (nessun motivo preciso per cui proprio lì abbiano collocato gli ordigni e non prima o dopo, nella stazione o nel convoglio che sarebbe passato dieci minuti dopo) contribuisce a moltiplicare il messaggio e a diffondere l’insicurezza. E, per finire, ciò è ancora più forte e dirompente se si considera il fatto che in tutte le grandi città troviamo una metropolitana analoga a quella di Londra o una stazione come quelle di Madrid e, ancora, che nel sistema delle metropolitane londinesi, quasi tutti noi siamo passati. Un’eventualità remota (un periodo ipotetico dell’irrealtà, irreale come lo sono queste azioni immonde) diventa allora una possibilità da prendere in considerazione. Paul Virilio (Città panico, Cortina, Milano 2004, in particolare p. 84) ci ricorda come viviamo ormai in un’unica – catastrofica – metropoli. E gli attentati del 7 luglio ce lo ricordano con violenza.

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